Era stata una lotta contro il tempo quella dell’amministrazione Trump contro la pubblicazione, prevista lo scorso 23 giugno, del libro “The room where it happened”, scritto dall’ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton. L’uscita inizialmente prevista per marzo è stata rimandata già due volte a causa del processo di revisione del National Security Council, che vaglia i libri scritti da ex funzionari di governo che hanno avuto accesso a informazioni classificate. Il Dipartimento di Giustizia ha denunciato Bolton che ha deciso di proseguire con la pubblicazione senza l’ok del NSC, lamentando che Trump ha abusato del processo di revisione per motivi politici. Il giorno dopo la denuncia sono uscite le prime rivelazioni del New York Times, Wall Street Journal e Washington Post sui contenuti del libro, bestseller su Amazon ancor prima di uscire. E il presidente non sembra uscirne proprio bene.
Ma facciamo un salto indietro. Classe 1948, Bolton nasce a Baltimore, Maryland, figlio di un vigile del fuoco e una casalinga. Si rivela subito un ragazzo brillante: ottiene tre borse di studio che gli permettono di studiare prima alla scuola privata McDough, poi a Yale e infine alla Yale Law School. Convinto conservatore e anticonformista, Bolton è un outsider in un’università liberal; a favore dell’intervento americano in Vietnam fa però in modo di non essere arruolato per una guerra che considera già persa. Dopo la laurea nel ‘74, entra in uno studio legale e 11 anni dopo comincia la sua carriera politica nel Dipartimento di Giustizia con Ronald Reagan. Continua a lavorare come funzionario anche con George W. Bush, ricoprendo vari incarichi fino alla nomina nel 2001 a Sottosegretario di Stato per il Controllo delle Armi e Affari di Sicurezza Internazionale. Qui si immerge completamente in quello che sarebbe diventato uno dei temi principali del suo lavoro: lo studio della minaccia nucleare. Diventa così una figura chiave dell’amministrazione Bush allo scoppiare della Seconda guerra del Golfo, scatenata dalle accuse mosse all’Iraq (poi rivelatesi false) di possedere armi chimiche. Nel 2005, Bush lo nomina ambasciatore alle Nazioni Unite: una istituzione che Bolton considera da sempre inefficace e inutile, ma dove riesce a far approvare le sanzioni alla Corea del Nord.
Bolton diventa un frequente commentatore di Fox News, il canale preferito del presidente, e arriva così dritto al cuore di Trump. Inizialmente il tycoon è indeciso se sceglierlo come consigliere perché non convinto dal suo “look” (soprattutto dai suoi folti baffi) e dalle voci che girano sul suo pessimo carattere. Alla fine però lo nomina suo terzo Consigliere alla Sicurezza Nazionale. Nel suo nuovo ufficio, Bolton appende al muro una copia dell’ordine esecutivo con cui Trump rompe l’accordo sul nucleare iraniano, una causa per cui Bolton si spendeva da tempo. Del suo consigliere il presidente apprezza la figura dura, lo stile di lavoro razionale e l’approccio pragmatico a multilateralismo e diplomazia. D’altra parte, mentre Trump tende verso l’isolazionismo, Bolton crede in una politica estera espansiva, che non esiti a intervenire per difendere gli interessi statunitensi all’estero. I due si troveranno su posizioni divergenti in occasione del ritiro delle truppe americane dal Medio Oriente e nei processi di distensione con paesi quali la Corea del Nord e la Russia. Nel giro di un anno la differenza di vedute diventa incolmabile e Bolton annuncia le proprie dimissioni; puntualmente smentito da Trump, che precisa invece di averlo licenziato.
La ferita rimane aperta e diventa più evidente nelle settimane del processo di impeachment contro Trump. Se inizialmente aveva scelto di non testimoniare alla Camera, Bolton si offre poi di testimoniare al Senato, pur consapevole del fatto che la maggioranza repubblicana avrebbe evitato di convocarlo. E così è stato: il Senato procede a assolvere il presidente, mentre Bolton finisce di redigere la sua opera, oggetto di un contratto editoriale da 2 milioni di dollari. In questa settimana sono cominciate a circolare le prime anticipazioni sul libro in cui non solo si confermano le pressioni sull’Ucraina da parte di Trump per far partire un'indagine sul figlio di Joe Biden, ma si racconta come il presidente abbia chiesto al leader cinese Xi Jinping di aumentare l’acquisto di prodotti agricoli made in Usa per aiutarlo a conquistare i voti degli stati rurali. Dal libro escono poi altre rivelazioni, alcune inquietanti (la comprensione mostrata da Trump verso la politica di repressione di Xi Jinping nei confronti della minoranza uigura) e altre imbarazzanti (la domanda del presidente se la Finlandia facesse parte della Russia o se il Regno Unito avesse la bomba atomica).
Non si fa fatica quindi a comprendere l’avversione di Trump per un libro che nel migliore dei casi lo dipinge come inadeguato, né la sua irritazione nel leggere le prime anticipazioni pubblicate dai giornali. Secondo il presidente, il libro è pieno di bugie, scritte per screditarlo da un “sick puppy” (questo il nomignolo che ha affibbiato a Bolton) che cerca vendetta per essere stato licenziato.