Quarantotto ore di guerra tra Israele e la Striscia di Gaza, poi la tregua mediata dagli egiziani. Se il cessate-il-fuoco è ancora fragile, le conseguenze di questa guerra lampo saranno durature. E c'è chi può dire di aver già vinto la sua partita.
La tregua tra Israele e la Jihad Islamica è in corso dalle 4 e 30 di questa mattina. A mediarla, dopo due giorni di fuoco incrociato tra l'enclave palestinese e lo stato ebraico sono stati emissari del Cairo. Il casus belli risale a martedì, quando in un attacco mirato le forze israeliane hanno ucciso Baha Abu al Ata, il leader della Jihad Islamica, considerato l’ideatore di una serie di recenti attacchi e una minaccia "per la sicurezza nazionale". Tra i palestinesi si contano almeno 34 morti. Il bilancio più grave è a Deir al-Balah, dove sono stati uccisi otto membri di una stessa famiglia. La risposta dei miliziani non si è fatta attendere. Una pioggia di oltre 400 razzi ha raggiunto il sud di Israele provocando decine di feriti, ma nessuna vittima. Il cessate-il-fuoco dovrebbe impedire l’escalation verso un nuovo conflitto che però, oltre alla Jihad, sono in pochi a volere.
Chi sono quelli della Jihad e cosa vogliono?
Organizzazione più piccola e meno strutturata di Hamas, pur se di matrice sunnita, è in gran parte finanziata dall’Iran. Può contare, secondo le stime, su un migliaio di membri attivi. I suoi vertici sanno che lo scontro di questi giorni può sfociare in un conflitto più ampio. Il loro obiettivo è alzare il livello della tensione con l’intento di creare una pressione costante su Tel Aviv, minacciata su tutti i confini da attori-proxy iraniani come Hezbollah in Libano e le truppe siriane del presidente Bashar al Assad sulla alture del Golan. Quanto ad Hamas “in termini politici, potrebbe considerare l’uccisione di Abu al Ata non del tutto negativa” spiega Giuseppe Dentice, esperto ISPI, ricordando che “nella lotta per la legittimazione agli occhi dei palestinesi, la Jihad ha più volte alzato il tiro minacciando una nuova guerra contro Israele che Hamas, almeno per ora, non sembra volere, perché non porterebbe alcun vantaggio concreto”. Da oggi la Jihad ha il suo martire e Hamas la presa più salda sul potere.

Israele e Hamas "alleati" improbabili?
A nessuno nella Striscia di Gaza è sfuggito che, all’indomani dell’uccisione di Abu Al Ata, Hamas ha iniziato a rullare i tamburi di guerra. Ma solo e soltanto quelli. Le Brigate Ezzedin al Qassam, ala militare del movimento islamico, hanno alimentato il fuoco della propaganda antisionista senza però sparare un colpo. D’altro canto e per la prima volta, Israele ha detto di non considerare più Hamas – che dal 2007 controlla la Striscia – il solo responsabile di quanto accade nell’enclave. Uno scambio di cortesie tra nemici leali? O piuttosto una convergenza strategica in un momento complesso? La moderazione di Yahya Sinwar – leader di Hamas a Gaza – non sembra frutto di un’improvvisa simpatia per Israele, nelle cui carceri ha trascorso ben 22 anni. Ma piuttosto della volontà di imporsi come leader per il post Mahmoud Abbas. Per farlo, ha bisogno di consolidare il suo potere. Un obiettivo che non si raggiunge con le campagne militari, portatrici di altri morti, macerie e distruzione. Ma che un accordo con Israele e un alleggerimento dell’embargo sulla Striscia - entrato nel suo 13esimo anno - potrebbe molto verosimilmente garantire.
Bibi è il vero vincitore?
Da parte sua Israele non ha confermato né smentito la notizia di una tregua in atto. Il ministro degli Esteri Israel Katz ha dichiarato alla radio in modo neanche troppo sibillino che “alla quiete risponderà la quiete”. È però fuor di dubbio che gli eventi degli ultimi giorni abbiano avuto ricadute positive per uno dei protagonisti della crisi: l’intramontabile ex premier e capo del Likud, Benjamin Nethanyahu.
La notizia dei raid su Gaza non era ancora circolata sulla stampa straniera che l’ipotesi di un governo di minoranza – in cui lui sarebbe stato il grande assente – era già tramontata. Nethanyahu oggi si ritrova di nuovo al centro della scena politica, al fianco del suo rivale, l’ex generale Benny Gantz, dell'alleanza centrista Blu e Bianco. L’ex capo di stato maggiore, che ha ricevuto l’incarico di formare un nuovo governo, ha poco tempo per decidere: il 20 novembre in assenza di una soluzione allo stallo politico attuale, Israele si troverà a dover indire nuove elezioni, le terze in un anno.
Nelle sue uscite pubbliche ‘King Bibi’ ripete di aver preso la decisione di assassinare Bahaa Abu Al Atta pensando solo “al bene di Israele”. Comunque siano andate le cose, dopo 48 ore di guerra, la sua battaglia sulla scena politica israeliana può dire di averla vinta.
IL COMMENTO di Giuseppe Dentice, ricercatore associato ISPI
“Sia Nethanyahu che Hamas escono rafforzati dal conflitto lampo. Il primo perché ha ribadito a tutti di essere l’unico, ineludibile, garante della sicurezza di Israele, nonché un imprescindibile attore politico. E lo ha fatto in un momento delicato in cui correva il rischio di rimanere fuori da un eventuale governo di minoranza, guidato da Benny Gantz”.
“Quanto ad Hamas – rimasto fuori dai combattimenti – ha dimostrato di sapersi comportare in modo responsabile e di essere all'altezza del ruolo di autorità di riferimento nella enclave palestinese".
"Anche il timing del conflitto ha favorito le due parti. Se le forze armate israeliane avessero proseguito nei raid, avrebbero provocato un aumento della pressione popolare dei palestinesi. A quel punto per Hamas sarebbe stato difficile mantenersi neutrale”.