Negli ultimi mesi è entrata una nuova “categoria” nel dibattito pubblico sulla Cina, quella dei wolf warrior, usata per indicare l’ascesa di un nuovo stile di comunicazione tra alcuni diplomatici cinesi che si distingue per essere assertivo, a tratti minaccioso, e spesso sciovinista. In definitiva, poco “diplomatico”. Esempi ne sono il portaparola del ministero degli esteri Zhao Lijian, conosciuto per le dichiarazioni pubbliche al vetriolo contro gli USA e la campagna anti-cinese di Trump, o anche il consolato cinese di Chicago, che sembra abbia fatto pressione su di un senatore per convincerlo a sostenere una mozione per ringraziare la risposta del governo cinese al Covid-19.
Cosa vogliono i wolf warrior
Non è un caso se questo gruppo di diplomatici cinesi prende il proprio soprannome da un film d’azione cinese, nel quale una divisione delle forze armate interviene in un paese lontano per salvare dei cittadini cinesi da alcuni mercenari occidentali. Nella realtà non cinematografica l’obiettivo dei wolf warrior è quello di tutelare la credibilità politica e gli interessi strategici di Pechino dalle accuse dei paesi percepiti come rivali, anche quando si tratta di difendere atti contrari al diritto internazionale o d’ispirazione autoritaria (come la stretta su Hong Kong o la repressione nello Xinjiang).
Come notato dall’accademico e ex diplomatico singaporiano Bilahari Kausikan, difendere e portare avanti anche duramente quelli che sono stati identificati come gli interessi nazionali è parte del lavoro quotidiano del corpo diplomatico di ogni paese. Ciò che però caratterizza i wolf warrior è il fatto che lo scontro diplomatico venga condotto anche tramite la comunicazione pubblica. Ne risulta una diplomazia roboante che richiama molto lo stile di quella “trumpiana”, fatta di dichiarazioni taglienti, minacciose o anche del tutto infondate, che tuttavia mette in prima linea i diplomatici locali e, in seconda, il Ministero degli affari esteri, senza però coinvolgere direttamente né il presidente né la cerchia del Politburo.
Questo stile aggressivo è una radicale rottura rispetto a quello sottile e sommesso con il quale la Cina aveva condotto la propria diplomazia post-Mao, guidata dalla massima di Deng Xiaoping per cui era necessario mantenere un basso profilo internazionale per aiutare lo sviluppo e la modernizzazione del paese. Eppure, il cambio di tono resosi inequivocabile con la pandemia era già nell’aria da più di un anno, da quando l’anno scorso Xi Jinping in un memo per il corpo diplomatico esortava ad assumere uno “spirito combattivo” nella difesa degli interessi cinesi. Poco prima di essere elevata a capo dell’information department del Ministero degli esteri durante l’estate 2019, Hua Chunying pubblicava un articolo sulla rivista della scuola di partito in cui riprendeva il messaggio del presidente. Lo stesso Zhao, notato per la sua presenza molto combattiva sui social, è stato richiamato dalla propria posizione in Pakistan per diventare il vice di Hua, e già prima dello scoppio della pandemia erano stati osservati alcuni esempi di questo nuovo stile tra i diplomatici cinesi.
Dove nasce questa diplomazia aggressiva
Le ragioni di questo fenomeno sono molteplici, dalla necessità di deflettere l’attenzione dalle difficoltà che la dirigenza ha incontrato su numerosi dossier al semplice cambio generazionale che ha portato in posizioni di responsabilità giovani quadri di partito cresciuti con la narrazione del successo cinese. La motivazione strutturale, tuttavia, sta nel sistema politico venutosi a creare con la centralizzazione del potere operata da Xi, la cui campagna anti-corruzione e riforma della burocrazia hanno posto come centrale per ogni membro del partito comunista la questione della lealtà verso il Segretario generale e la sua linea politica. Mostrare il proprio sostegno per il pensiero di Xi e la sua visione nazionalista, dunque, è diventata un modo per assicurarsi una protezione e una prospettiva di carriera. Il ché spiegherebbe come mai una buona parte dei wolf warrior sono diplomatici di medio rango, spesso abbastanza giovani.
L’afflato nazionalista e l’esaltazione del proprio modello politico sono però elementi destinati a rimanere nel processo politico cinese. Spesso Xi ha infatti parlato del “rinvigorimento nazionale (民族复兴 mínzú fùxīng)”, uno slogan che indica l’intenzione di riportare la Cina alla grandezza che la propria storia e cultura le attribuiscono, ed il messaggio patriottico è stato accolto con approvazione dalla popolazione, che spesso aveva anzi criticato il tono troppo morbido dei precedenti governi. Avendo creato l’aspettativa di veder riconosciuta e confermata la propria potenza a livello globale, Xi non potrebbe lasciare che attori esterni attacchino Pechino oltrepassando le linee rosse stabilite dal governo come interessi nazionali (come la narrazione sulla gestione della pandemia) senza “perdere la faccia”. Il che sarebbe un duro colpo per le credenziali patriottiche sulle quali la Cina post-maoista ha costruito parte della propria legittimità.
Un dato interessante che conferma la natura “apicale” dell’incentivo a diventare wolf warrior è il fatto che una parte dell’offensiva comunicativa cinese è avvenuta su Twitter, un social generalmente non accessibile in Cina agli utenti cinesi sul quale però negli ultimi mesi i diplomatici cinesi si sono riversati in massa. Sebbene i media nazionali riportino gli alterchi contro i detrattori delle politiche di Pechino, il pubblico a cui l’offensiva dei diplomatici sui social mira è principalmente quello dei piani alti del partito e solo indirettamente la cittadinanza.
Il (mancato) “potere discorsivo” della Cina
Tuttavia come spiega Todd Hall, professore all’Università di Oxford, è possibile che esista anche una questione di “filosofia” nel nuovo corso della politica estera cinese, sebbene sia difficile averne prova. Il motivo per cui la dirigenza di Pechino avrebbe deciso di intraprendere una diplomazia più aggressiva potrebbe essere stata la constatazione che l’approccio sommesso predicato da Deng Xiaoping per promuovere la modernizzazione del paese in fin dei conti non abbia effettivamente portato all’accumulazione di quel “comprehensive national power (综合国力 zōnghé guólì)” necessario secondo la dirigenza di Pechino a influire sull’agenda internazionale. La diplomazia dei wolf warrior potrebbe quindi essere una risposta a questo fallimento percepito, basata sull’idea che far leva esplicitamente sulla propria potenza sia il metodo più efficace per far sentire la propria voce a livello globale e per ottenere quello che viene definito come “potere discorsivo”.
I wolf warrior restano comunque un fenomeno dibattuto all’interno della comunità di decisori e accademici della politica estera cinese, e in alcuni casi il disaccordo è emerso pubblicamente, come nell’articolo pubblicato dalla ex vice ministro degli esteri Fu Ying o nell’intervista dell’ambasciatore a Washington. Alcuni di essi infatti hanno espresso forti dubbi sulla sua efficacia, sottolineando le ripercussioni negative per i rapporti internazionali e l’immagine della Cina del mondo. Sebbene rispetto ai primi mesi dopo lo scoppio della pandemia i toni siano stati un po’ smorzati, è però improbabile che questo atteggiamento diplomatico si estingua nel prossimo futuro. La ratio di fondo che guida la diplomazia dei wolf warrior, e cioè quella di proteggere e diffondere la narrazione che la Pechino vuole proporre al mondo, infatti, è destinata a rimanere.
Inquadrare la retorica aggressiva dei diplomatici cinesi come l’espressione della naturale ostilità della Cina verso l’occidente sarebbe semplicistico e riduttivo della complessità del fenomeno. La campagna comunicativa in cui si è lanciata la diplomazia di Pechino è infatti il cortocircuito tra alcune delle disfunzioni del sistema politico e la determinazione della potenza cinese a voler aumentare il proprio “diritto di parola” in seno alla comunità internazionale. Non solo la diplomazia dei wolf warrior si è rivelata contro-producente nel senso che ha favorito la creazione di iniziative politiche che sfidano apertamente la Repubblica Popolare, ma non ha nemmeno aumentato il potere discorsivo di Pechino a livello internazionale. Ciò che ha lasciato invece è un’immagine internazionale gravemente compromessa.