Ben oltre i fattori congiunturali – crisi economica globale, guerre commerciali, rallentamento del tasso di crescita, eccessivo indebitamento delle imprese, calo degli investimenti profittevoli – a determinare la riduzione duratura del tasso di crescita potenziale cinese sarà il fattore demografico.
La Cina di oggi è un paese a rapido invecchiamento con un’età mediana di 38 anni (era di 19 anni nel 1970), destinata a salire a 48 nel 2050, con un tasso di dipendenza (rapporto della popolazione inattiva rispetto a quella in età lavorativa) che si avvicina rapidamente al 100%.
Nel tentativo di prevenire gli scenari peggiori, il governo cinese ha allentato, già dal 2016, la politica del figlio unico introdotta nel 1978 con l’obiettivo di evitare un’eccessiva crescita della popolazione. Ma i risultati non si sono visti, perché le cause della bassa natalità sono piuttosto dovute al crescente inurbamento e all’aumentata partecipazione femminile al mercato del lavoro, cui si aggiunge l’elevato costo dell’istruzione e della dote da garantire ai figli maschi (che in Cina sono la maggioranza, contrariamente a tutti gli altri paesi del mondo dove le donne superano in numero gli uomini, e ciò proprio per gli effetti drammatici della politica del figlio unico).
Per cercare di aumentare il tasso di crescita potenziale dell’economia, l’unica via percorribile è quella di migliorare la produttività totale dei fattori. Consapevole dell’importanza di tale sfida su cui si giocherà la stabilità stessa del sistema, il Patito comunista (PCC) ha varato nel 2015 il piano “Made in China 2025”. Il programma ha l’obiettivo di far diventare la Cina in 10 anni il paese all’avanguardia nei settori di punta dell’industria 4.0 con ingenti investimenti in internet, super-computer, intelligenza artificiale, robotica, automazione industriale, nuovi materiali, ferrovie, aerospazio, infrastrutture marittime e scienze della vita: non solo dunque una sfida agli USA per la leadership globale, ma una sfida per la sopravvivenza.