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SUD DEL MONDO

Cina: da donatore a banchiere

Massimiliano Frenza Maxia
|
Aldo Pigoli
29 luglio 2022

Da qualche anno la Repubblica Popolare Cinese ha assunto un ruolo sempre più rilevante nelle dinamiche di sviluppo internazionali, promuovendo la propria visione e contribuendo ad affrontare le varie sfide che la comunità internazionale sta affrontando sotto il profilo economico e sociale. Uno degli strumenti principali utilizzati da Pechino è quello della partecipazione nelle istituzioni finanziarie multilaterali (IFIs), quali la World Bank (WB) e le varie Multilateral Development Banks (MDB), soprattutto quelle sorte in Asia, Africa e America Latina e di cui, in alcuni casi, la Cina si trova ad essere il principale finanziatore, superando anche i classici Paesi donors occidentali e dell’area OCSE. Pechino utilizza questi strumenti per vari scopi, sia politici che economici. Indubbiamente, un obiettivo prioritario è quello di incrementare il proprio peso geoeconomico e sostenere le proprie strategie di investimento in varie regioni, in particolare nel continente africano.

Una parte rilevante delle risorse erogate da Pechino, sia tramite il sostegno a grandi e piccole MDB (alcune delle quali create ad hoc) sia attraverso i fondi cofinanziati, riguarda proprio le infrastrutture, che sono sempre più un asset strategico nella competizione geoeconomica che la Cina sta portando avanti, principalmente attraverso lo sviluppo e l’implementazione della Belt and Road Inititive (BRI). Tuttavia, da qualche tempo sembra in atto un cambio di strategia, almeno parziale, da parte di Pechino, con il tentativo di sviluppare progetti in grado di ripagare da sé i debiti contratti per i finanziamenti, attraverso la capacità di realizzare revenues, rispetto al classico modello di garanzie basate su materie prime o sul “pignoramento” delle stesse infrastrutture realizzate.

 

Il cambio di paradigma cinese

La Cina ha assunto nel tempo il ruolo di principale prestatore a livello mondiale per la gran parte dei Paesi in via di sviluppo (Pvs) e da tempo tale impegno ha acceso i riflettori di studiosi e mondo dell’informazione a livello internazionale.

L’approccio cinese è stato orientato per decenni alla compartecipazione tramite l'aiuto al finanziamento di grandi progetti infrastrutturali, al fine di creare nuove opportunità per i Pvs, ottenendo di contro, rapidi guadagni in termini di “soft power”. Nel tempo, tuttavia, tale approccio si è dimostrato eccessivamente costoso a causa di rischi legati alla corruzione, all’instabilità politica e ai conflitti presenti nei Paesi beneficiari.

Le narrazioni cinesi intorno al tema dell’aiuto allo sviluppo dei Paesi del terzo mondo sono da decenni organizzate intorno alla famosa teoria dei “tre mondi” di Mao. La Cina di oggi è molto diversa da quella del “Grande timoniere” ma tale narrazione è ancora viva, così come quella relativa alla comunanza di interessi e necessità in ambito di sviluppo economico e sociale: ne è una riprova lo spazio costantemente dedicato dal Ministero Affari Esteri cinese ai Paesi di quello che un tempo veniva definito “Sud del mondo”.

Tuttavia, l’analisi dei vari database disponibili a livello internazionale, primo fra tutti il Global Chinese Development Finance Dataset, datato settembre 2021 e messo a disposizione dallo statunitense William & Mary's Global Research Institute, offre l’immagine di un Paese che non è più animato da politiche terzomondiste ma che non si è neanche trasformato in Paese imperialista, avvezzo all’utilizzo della leva del debito per acquisire risorse e assumere il controllo di interi Paesi. Ciò che emerge è, semmai, la fotografia di un attore oramai consapevole e pragmatico che, alla luce anche dei propri problemi interni e del rallentamento della propria economia, sta acquisendo una nuova maturità nel modello di compartecipazione alle dinamiche di sviluppo mondiale.

Il punto di attenzione è semmai legato alle modalità cinesi con cui vengono proposti i contratti di lending e alle derive cui possono portare, tra cui, soprattutto, la assai dibattuta “trappola del debito”.

 

Finanziamenti cinesi in Africa: una storia da riscrivere

Dal 2009, la Cina ha sopravanzato gli USA nel ruolo di principale partner commerciale dei Paesi africani, divenendo peraltro il primo “prestatore” dei Paesi del continente. Quest’ultima dinamica è avvenuta principalmente attraverso accordi bilaterali il cui contenuto normativo, nella maggior parte dei casi, è rimasto vago e coperto da clausole di segretezza. Per realizzare le proprie iniziative, le autorità di Pechino hanno agito sull’African Development Bank (AfDB), attraverso la firma di diversi Memorandum of Understanding (MoU), principalmente con le sue due banche pubbliche orientate allo sviluppo internazionale, la Export-Import Bank of China (EXIM) e la China Development Bank (CDB), nonché con la Agricultural Bank of China (ABC).

Altro canale di partnership è stata l’istituzione dell'Africa Growing Together Fund (AGTF): istituito nel novembre 2014 con una dotazione iniziale di 2 miliardi di dollari e per la durata di 10 anni, l’AGTF è finanziato dalla People’s Bank of China (PBOC) e amministrato dall’AfDB.

Fatte tali premesse, alcune domande sorgono spontanee. Quanto hanno inciso i finanziamenti cinesi nelle politiche di investimento delle principali MDB, impegnate nello sviluppo africano, tra cui spicca l’AfDB? E ancora, quanto la massa di denaro impegnata dalla Cina in Africa ha condizionato le politiche di istituzioni come la World Bank e l’AfDB, storicamente governate da contributi finanziari occidentali?

Uno studio molto dettagliato, intitolato China in Africa: Competition for traditional development finance institutions?, apparso nel 2018, ci dice che i livelli totali di finanziamento da parte delle due MDB citate, nell’ambito del database preso in esame nonché delle conferme avvenute dall’analisi ulteriore effettuata su tre Paesi campione (Etiopia, Tanzania e Malawi), dimostra come poco o nulla sia cambiato nel tempo, indipendentemente dal crescere dell’impegno finanziario cinese. Lo stesso vale per i livelli di finanziamento dei donatori bilaterali tradizionali. Anche l'allocazione settoriale dei prestiti agevolati non ha mostrato alcuna reattività delle istituzioni internazionali a guida occidentale all’impegno cinese.

Lo studio, in sintesi, determina come “Nel complesso, […] il ruolo della Cina nella finanza africana allo sviluppo è [stato] davvero sostanziale e in crescita, [ma] non ha avuto l'impatto ‘rivoluzionario’ sulla finanza tradizionale orientata allo sviluppo, come la percezione condivisa potrebbe portare a credere”. In altre parole, non ha fatto da catalizzatore di investimenti privati o istituzionali, ma ha lavorato in autonomia. Le cose potrebbero tuttavia cambiare, una volta che i Paesi beneficiari avranno esaurito una loro prima fase di sviluppo economico e sposteranno le proprie preferenze in termini di finanziamento, dalla categoria di prestiti agevolati (tipicamente proposti dalla Cina) a quella di prestiti non agevolati, tipicamente proposti dalle MDB.

 

Il continente africano come case study

La politica cinese dei finanziamenti verso i Paesi in via di sviluppo non ha “condizionato” l’AfDB nel riorientare la propria azione. Inoltre, con molta probabilità, gli aiuti allo sviluppo erogati da Pechino nel corso degli anni si sono rivelati eccessivamente onerosi per la Cina, nonostante gli indubbi vantaggi in termini geoeconomici conseguiti.

Oggi il modello sta cambiando e un esempio di ciò è la nuova autostrada a pedaggio keniota Nairobi Expressway (conosciuta anche come “JKIA–Westlands Highway”). L’infrastruttura, lunga poco meno di 27 km attraverso la capitale del Kenya, è stata costruita dall’impresa statale China Road and Bridge Corporation (CRBC) e finanziata dalla EXIM. Tale opera rappresenta al meglio il cambio di paradigma nel modello di investimento cinese. Esempi similari si sono visti in Mozambico e in particolare a Maputo, dove la Cina ha finanziato un ponte a pedaggio che collega due parti della città. Nelle intenzioni cinesi l’istituzione del pedaggio serve a ripagare l’investimento. Diversamente, nel decennio 2000-2010, e in misura costante negli anni successivi, le banche statali cinesi avrebbero prestato miliardi di dollari ai governi africani, come il Kenya o il Mozambico, per infrastrutture simili, legando i rimborsi all'estrazione delle risorse naturali.

La musica sembra quindi cambiata e, d’altra parte, lo stesso Xi Jinping in un discorso del novembre del 2021, durante il Forum on China-Africa Cooperation (FOCAC), aveva preannunciato per il successivo triennio la riduzione della quantità complessiva di denaro fornita all'Africa, indicando che la Cina avrebbe impegnato “le sue imprese a investire non meno di 10 miliardi di dollari in Africa”, con la riduzione di un terzo rispetto al picco raggiunto nel 2016, di circa 30 miliardi di dollari, reindirizzando lo sforzo cinese dai prestiti orientati alle grandi infrastrutture verso quelli a favore di PMI,  progetti verdi e sostegno agli investimenti privati, attraverso una “piattaforma per la promozione degli investimenti privati Cina-Africa”.

 

Cambio di paradigma ma medesime opacità sui contratti

Al di là degli impegni e delle dichiarazioni pubbliche, che non fanno mistero del cambio di prospettiva, ciò che preoccupa rimane sempre l’opacità degli accordi bilaterali e multilaterali che la Cina, tramite le sue banche d’investimento e il supporto dell’AfDB, fa sottoscrivere.

L’elemento che principalmente ha alimentato il bisogno di indagine è rappresentato dalle clausole di segretezza che spesso accompagnano l’attività di lending. Recentemente un gruppo di studiosi ha pubblicato i risultati di un’analisi sistemica di tale fenomeno: Banking on Beijing. The Aims and Impacts of China's Overseas Development Program. Lo studio descrive la transizione cinese da Paese benefattore a Paese investitore, specificando come tale cambio di approccio sia transitato tramite il progressivo abbandono di finanziamenti a grandi progetti infrastrutturali, a vantaggio dell’uso geoeconomico della leva del debito. Le tesi proposte nello studio sono corroborate dall’analisi di circa 4.500 progetti per un controvalore pari a 358 miliardi di dollari, spesi in 138 Paesi negli ultimi quindici anni.

I contratti di prestito analizzati non solo si sono rivelati ambigui, poiché coperti da riservatezza, ma hanno nel tempo acquisito una sempre maggiore sofisticatezza, finendo per privilegiare i creditori cinesi e prevedendo, oltre al segreto, l’impegno da parte del Paese beneficiario del prestito di sottoscrivere un conto fiduciario a garanzia del debito. Inoltre, sono stati esclusi i debiti contratti dai meccanismi di ristrutturazione previsti dai terms normati dai Paesi creditori appartenenti al Club di Parigi. Allo stesso modo gli accordi patrocinati bilateralmente dai cinesi escludono l’adozione di altre iniziative di ristrutturazione collettiva come, ad esempio, quelle della Banca mondiale.

Oltre alla già citata autostrada kenyota, un altro esempio del nuovo approccio cinese e dei rischi connessi è il finanziamento dell’aeroporto di Entebbe in Uganda; secondo alcuni analisti e politici locali che ne hanno studiato le clausole, lo scalo che serve la capitale Kampala potrebbe passare in mani cinesi in caso di inadempienza del governo locale.

La realtà intorno al supposto problema della “trappola del debito” è molto complessa e articolata e molti osservatori, anche in Occidente, ritengono che dietro di essa vi sia molta “mitologia” anche perché un prestatore è tale a tutte le latitudini e raramente eroga denaro senza una reale prospettiva di ritorno economico e adeguate garanzie. L’assunzione del controllo del bene finanziato non è mai agevole e nella migliore delle ipotesi comporta ulteriori costi. A rilevare, quindi, non sono solo le clausole stipulate, bensì il fatto che la Cina ne adotta di proprie, non riconoscendo regole e prassi internazionali. La questione dell’inadempienza è sicuramente rilevante per i Paesi debitori e, in caso di moltiplicazione dei casi, certamente rileva anche agli occhi di Pechino. Tuttavia, in un’ottica sistemica ed evolutiva, è utile interrogarsi circa la capacità (e volontà) della Cina di fronteggiare una possibile crisi del debito globale veicolata dalla pandemia, stimolata dalla guerra in Ucraina e potenzialmente aggravata da uno scenario di stagflazione.

 

Conclusioni

Buona parte degli studi e delle analisi sulle modalità con cui la Cina contribuisce allo sviluppo concordano sul fatto che la mole di miliardi di dollari erogati dalla Cina in Africa abbia servito principalmente gli interessi geopolitici e geoeconomici della Cina. Si tratta, in molti casi, di prestiti onerosi, benché agevolati. Tali prestiti hanno finanziato grandi interventi infrastrutturali ma non hanno fatto da catalizzatore per le iniziative delle principali MDB che agiscono sul continente, World Bank e AfDB, che hanno proseguito con la propria politica di concessione di prestiti non agevolati, senza peraltro reagire in termini quantitativi alla massa di denaro immessa dai cinesi. Semmai, per Pechino, la compartecipazione all’AfDB è servita a fare da apripista per le proprie banche, in particolare la EXIM e la CDB.

Dalla pandemia in poi e con il contrarsi della crescita cinese (nel secondo trimestre del 2022 il Pil ha avuto un incremento solo dello 0,4%, allontanando la possibilità di raggiungere il target del 5,5% per fine anno), il Dragone sta rivedendo quantità e target degli interventi.

Allo stato attuale, essendo i dati a disposizione ancora scarsi, appare azzardato affrettare conclusioni circa la capacità di tale cambio di paradigma nel favorire il concorso ai finanziamenti da parte di investitori privati che, ragionevolmente, potrebbero comunque rimanere alla larga da compartecipazioni in joint-ventures che, in caso di scenari di mancato rimborso, li vedrebbero assumere il ruolo di creditori subordinati.

Inoltre, considerando il punto di vista africano, oltre ai rischi di cadere o rimanere invischiati nella trappola del debito cinese, ciò che preoccupa è la capacità di molti Paesi di sostenere il proprio crescente indebitamento: tagli alla spesa pubblica, incremento del gettito fiscale e maggior efficienza nell’utilizzo di quanto preso in prestito, sono condizioni fondamentali che sembrano attualmente non alla portata di molti sistemi economici, soprattutto nella regione sub-sahariana.

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Geoeconomia Cina Africa sviluppo
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AUTORI

Massimiliano Frenza Maxia
UniRoma3
Aldo Pigoli
Università Cattolica

Image Credits (CC BY-ND 2.0): GovernmentZA

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