Il 2020 rappresenta un anno di svolta decisa della posizione della Cina sullo scenario globale. In netto contrasto con la deriva protezionistica presa dagli Stati Uniti sotto l’amministrazione Trump, la Cina di Xi ha dichiarato da tempo di volersi erigere a vero e proprio paladino della globalizzazione. Poiché però le attese circa un processo di riforma, se non politico, almeno delle strutture economiche fondamentali della Cina è stato ampiamente disatteso, oggi ci si chiede che tipo di globalizzazione aspettarsi da una Cina sempre più controllata dal PCC?
Nuova governance internazionale
Dopo decenni di crescita tra le pieghe dell'ordine economico occidentale, oggi sembra essere pronta a sfidarlo per plasmare una nuova governance internazionale, per lo meno in Asia. In questa prospettiva si inseriscono recenti sviluppi relativamente al posizionamento di Pechino nelle relazioni economiche internazionali. Sul fronte della Belt and Road Iniziative (BRI), è ormai chiaro, ammesso che non lo fosse sin dal suo avvio nel 2013, che l'obiettivo finale dell’iniziativa è il passaggio dal multilateralismo di tipo occidentale a un mix di negoziati bilaterali e nuovi multilaterali con la Cina interlocutore protagonista in qualsiasi trattativa importante. La BRI ha recentemente contribuito a consolidare l'immagine di Pechino come un investitore netto diretto e finanziario netto, lavorando per stabilire quella che è stata etichettata come "globalizzazione con caratteristiche cinesi", che sembra più un'espansione verso l'esterno dell'influenza cinese all'estero che un passo verso un approccio veramente multilaterale.
È ormai chiaro che la BRI non è tanto e solo un progetto di sviluppo infrastrutturale (sia fisico sia digitale), ma include anche molte altre sfere di cooperazione, ivi comprese per esempio, oltre a quella energetica, anche quella sanitaria e quella finanziaria. Nel mezzo della pandemia, nella primavera del 2020, la Cina ha rilanciato la cosiddetta Via della Seta sanitaria – già presente dal 2017 – per mostrare come la rete di infrastrutture BRI (ma soprattutto le intese bilaterali per la sua realizzazione) potessero servire come meccanismo per la fornitura di servizi medici e aiuti umanitari. Inoltre, la Via della Seta finanziaria è sempre più evidente come un pilastro fondamentale di tutta la BRI: è in atto una vasta gamma di programmi di politica finanziaria trans-frontaliera, tra cui una serie di accordi di currency swap (per compensare la non convertibilità del renminbi), lo sviluppo di un mercato obbligazionario asiatico e l’emissione estera di obbligazioni denominate in renminbi.
Obiettivo Paesi in via di sviluppo
La BRI continua a tessere la sua tela ben oltre le infrastrutture di trasporto e si configura come un’iniziativa composita, lungimirante e soprattutto molto duttile. Essa è ideata per diventare il format delle relazioni bilaterali cinesi con il resto del mondo, soprattutto con i Paesi in via di sviluppo (Pvs). Questa sembra essere in effetti l’intenzione di autorevoli esponenti del pensiero accademico in Cina, tra i quali lo studioso cinese Yao Yang, decano della Scuola nazionale di sviluppo dell'Università di Pechino, che nell’autunno di quest’anno ha proposto di trasformare la BRI in un'istituzione operativa per il mondo in via di sviluppo, con sede centrale in Europa. Secondo Yao, la BRI dovrebbe essere organizzata come un’organizzazione che fornisce competenze e consulenza ai Pvs, seguendo l'esempio dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), che fornisce conoscenze e consulenza ai Paesi sviluppati.
Sfida alle istituzioni di Bretton Woods
Le ambizioni della Cina non sono chiaramente limitate al commercio e alle infrastrutture. Pechino sta anche sfidando le "vecchie" istituzioni di Bretton Woods: ha promosso nuove istituzioni come la Asian Investment Infrastructure Bank (AIIB), la Chiang Mai Initiative Multilateralization (CMIM), la "Nuova Banca di sviluppo (NDB) dei BRICS e da ultimo, il Partenariato economico globale regionale (RCEP) tra 15 Paesi asiatici. Infatti, a fronte di un esito incerto, fino a pochi giorni fa, sulle elezioni USA, dal quale dipendono totalmente le future relazioni tra Cina e Stati Uniti, ma anche tra la Cina e tutta l’Alleanza atlantica, Pechino ha da tempo scelto di costruirsi una valida alternativa fondata su una forte connessione e interdipendenza all’interno dell’Asia. Già all’indomani della firma del Partenariato del Transpacifico (TPP) di ispirazione statunitense, dal quale la Cina era esclusa e che mirava a un suo isolamento nel Pacifico, aveva iniziato a costruire un partenariato alternativo (RCEP), che è stato concluso mirabilmente il 15 novembre scorso a Hanoi.
Parole d’ordine: auto-sufficienza e standard cinesi
Tutto questo si configura come perfettamente coerente con l’obiettivo centrale inserito nel 14° Piano quinquennale che interesserà il periodo 2021-2025: l’obiettivo di una maggiore autosufficienza, da perseguire con un forte impulso ai consumi interni, senza tralasciare un giusto grado di apertura, sempre selettiva, soprattutto a favore del resto dell’Asia, con cui la Cina aumenterà il commercio e gli investimenti.
Nel realizzare i suoi legami internazionali, la Cina non rinuncia ad applicare efficacemente un concetto di sistema di mercato molto più sfumato e limitato all'interno della propria economia rispetto a quanto non ammetta l'establishment cinese nei discorsi pubblici e nelle sedi internazionali. In particolare, lo Stato ha ancora un grande ruolo nell'economia attraverso la proprietà diretta o indiretta delle imprese e le decisioni sui prezzi spesso non sono lasciate alle forze di mercato, ma sono soggette alla regolamentazione statale. Questo comportamento ambivalente - che limita i meccanismi di mercato in patria mentre, allo stesso tempo, rivendica il riconoscimento dello status di economia di mercato a livello internazionale - è un'altra fonte di grande preoccupazione per il resto del mondo.
Non si dimentichi inoltre che la BRI e gli accordi di libero scambio e partenariato economico, tra cui RCEP, sono in grande sinergia tra di loro. Pechino vuole diventare standard maker e sta attuando un ambizioso piano per diventare il leader nel campo della definizione di standard tecnici, che è diventato uno strumento chiave nella corsa verso la supremazia tecnologica. In questo senso, grande è il ruolo della BRI nel rafforzare l’estensione degli standard nazionali cinesi nei Paesi vicini e collocare gli standard cinesi più attivamente negli sforzi di standardizzazione internazionale.
Nella “trappola del debito”
Infine, in quanto alle implicazioni finanziarie della BRI, molto è stato detto rispetto al fatto che la Cina abbia fatto leva sulla propria influenza sui mercati emergenti e su come ciò potrebbe attirarli verso una «trappola del debito» in grado di renderli finanziariamente vulnerabili a interessi cinesi. Secondo il Rhodium Group, che ha esaminato quaranta casi di rinegoziazioni del debito estero della Cina, più d’una fra le economie emergenti che hanno partecipato con entusiasmo alla BRI soffriva già da tempo di un elevato indebitamento prima ancora di imbarcarsi nella BRI. Inoltre, i casi di indebitamento eccessivo verso la Cina creano una situazione di elevato rischio anche per la parte creditrice ed è probabile che tra qualche anno ci saranno più casi di sofferenza, in quanto molti progetti cinesi sono stati lanciati dal 2013 al 2016. Dal 2013, infatti, la Cina ha investito 690 miliardi di dollari in progetti BRI in 72 paesi, con circa 280 miliardi di dollari in 44 paesi che non sono valutati dalle agenzie di rating o che non hanno investment grade, secondo l’International Finance Institute.
Un rapporto del Centre for Global Development ha rilevato che il 23% dei paesi BRI erano ad alto rischio di indebitamento anche prima della pandemia e oggi sono almeno otto i Paesi a rischio di indebitamento eccessivo, tra cui Gibuti, Mongolia, Kirghizistan, Laos, Maldive, Pakistan e Montenegro. Il Pakistan, per esempio, ha recentemente ricevuto un prestito di 1,4 miliardi di dollari dal FMI per affrontare il problema economico del rallentamento causato dall’epidemia di Coronavirus. Più recentemente, lo Zambia, grande produttore africano di rame, sommerso da ingenti prestiti cinesi, ha sospeso i pagamenti internazionali in attesa di un piano di ristrutturazione del debito con l’ausilio del FMI, che ha proposto una maggior trasparenza sulle posizioni creditorie e debitorie sovrane (soprattutto per i Paesi, come la Cina, che non hanno aderito al Club di Parigi e quindi non ha obbligo di dichiarare tutti i prestiti che eroga attraverso le sue banche pubbliche).
Nel 2020, già un gruppo di Paesi ha fatto default o dovuto introdurre programmi di ristrutturazione del debito (Argentina, Belize, Ecuador, Libano, Suriname, Zambia). In confronto, nella grande crisi finanziaria del 2008-09, si sono contati solo tre default sovrani; questo significa che oggi le condizioni in cui versano molti Paesi poveri e indebitati sono più gravi. In particolare, le vicende in Zambia nell’autunno del 2020 rischiano di diventare il prototipo delle prossime crisi del debito di molti Paesi in via di sviluppo.