Il 30 aprile scorso il presidente cinese Xi Jinping ha celebrato, davanti a una platea composta in larga parte dai giovani aspiranti leader comunisti, il centenario del “Movimento del Quattro maggio 1919”, la grande campagna culturale e patriottica rivolta contro il sistema feudale imperiale, la cultura tradizionale e le decisioni prese alla Conferenza di pace di Versailles. Il grande fervore intellettuale allora espresso da letterati e studenti ha indubbiamente influenzato il pensiero moderno cinese e forgiato l’identità storica della Cina di inizio Novecento, la cui sovranità era stata depotenziata dalla lunga serie di “trattati ineguali” imposti all’ex impero celeste tra il 1842 e il 1905.
Tuttavia, dalla fine della guerra civile, l’eredità lasciata dal movimento è stata oggetto di una perenne contesa interpretativa tra il Partito comunista cinese (PCC) e i dissidenti. Se il PCC, da una parte, ha riconosciuto il grande contributo fornito dal “Quattro maggio” nell’affrancare il Paese dall’oscurantismo intellettuale, morale e spirituale in cui si trovava, dall’altra, non ha mancato di propagandare una propria versione di quel periodo turbolento. Mao Zedong per primo rappresentò i giovani dell’epoca come i pionieri della rinascita nazionale della “nuova Cina” che da lì a trent’anni si sarebbe presto materializzata ed enfatizzò il carattere patriottico e antimperialista del movimento. Al contempo, sia il “Grande Timoniere” che i suoi successori omisero aspetti altrettanto significativi quale la modernizzazione culturale e politica, che ha invece avuto particolare presa sul movimento studentesco dell’aprile 1989. Xi non si è discostato da questa linea e ha richiamato lo spirito di quell’evento fondativo della storia cinese per infondere nuova linfa al nazionalismo e dare lustro al concetto di “ringiovanimento” della nazione cinese. Così, la riscossa della Repubblica popolare cinese (RPC), autentico cavallo di battaglia del “paramount leader”, passa non solo dallo sviluppo economico e dal riavvicinamento alla culturale tradizionale, bensì anche dalla formulazione di un discorso patriottico volto ad annichilire ogni forma di separatismo e indipendentismo. Dai recenti sviluppi a Taiwan e a Hong Kong, le vestigia simboliche del “secolo dell’umiliazione”, unitamente all’interpretazione di alcune dichiarazioni presidenziali, è possibile estrapolare i tre principali caratteri del discorso nazionalista cinese.
Unità nazionale e restrizione dell’autonomia
La promozione dell’unità nazionale, la protezione dell’integrità territoriale e marittima e la neutralizzazione della minaccia separatista rappresentano i cardini della strategia di sicurezza nazionale “con caratteristiche cinesi”. Tra le diverse e crescenti minacce cui la Cina di Xi deve far fronte, il risveglio dei focolai separatisti sparsi sul suo immenso territorio rischia oltremodo di comprometterne la sicurezza interna. A partire dalla ormai settennale questione dell’indipendenza di Taiwan. Nel suo messaggio ai “compatrioti” dello scorso gennaio, Xi ha lasciato intendere che non esiste alcun margine di manovra. Le relazioni bilaterali camminano in questa fase su “fondamenta precarie”. Pechino ha sospeso i contatti con quella che considera una “provincia ribelle” da quando la presidentessa di Taiwan Tsai Ing-wen, al potere dal 2016, ha escluso di avviare negoziati bilaterali sulla base del principio di “una sola Cina” (yi ge Zhongguo zhengce), cristallizzato nel compromesso dell’agosto 1992 (Consensus) che ha sancito il disaccordo su chi tra Pechino e Taipei sia legittimato a rappresentare il popolo cinese. Tsai, alle prese con un calo di popolarità e con i malumori del Partito Democratico Progressista (PDP), intende mantenere lo status quo nelle relazioni con Pechino e focalizzarsi, piuttosto, sulla crescita economica e sul consolidamento del processo democratico avviato alla fine degli anni Ottanta. D’altra parte, è ben consapevole che avventurarsi ora in ricette indipendentiste minerebbe la stabilità e l’economia dell’isola. A favore di un riavvicinamento a Pechino si è levata la voce dei Taishang, gli uomini d’affari taiwanesi con importanti interessi economici nel “mainland” cinese. Questo importante gruppo di pressione annovera tra le sue fila il proprietario della Foxconn Terry Gou, ora in corsa per le primarie presidenziali del Guomindang. Proprio una delegazione del partito nazionalista guidata da Hung Hsiu-chu, si è recata nei giorni scorsi a Pechino per un colloquio con Wang Yang, membro del Comitato Permanente dell’Ufficio Politico del PCC. L’ex leader del Guomindang si è detta favorevole al ripristino un canale di comunicazione privilegiato con la Cina comunista e a negoziare un accordo che superi il Consensus e metta in moto un processo pacifico di unificazione. Nondimeno, non è ben chiaro se tale posizione sia condivisa all’interno del partito, o se rappresenti piuttosto la visione di lungo periodo della Hung.
Dall’altra sponda dello stretto di Formosa, alla fine di aprile, il tribunale del ricco distretto di West Kowloon ha condannato tre dei nove leader del “movimento degli ombrelli” a una pena fino a sedici mesi di reclusione, colpevoli di aver impedito, nei 79 giorni di protesta, lo sviluppo ordinato degli affari e dell’amministrazione di Hong Kong (“public nuisance”). Nel settembre 2014, partendo dall’interpretazione letterale di una sezione dell’articolo 45 della Basic Law, la legge fondamentale che regola i rapporti tra la regione amministrativa speciale e la RPC, i movimenti pro-democrazia manifestarono per chiedere l’elezione diretta del Chief Executive, figura esecutiva e garante dell’ordinamento cittadino, che ad oggi è selezionata dal Comitato Elettorale, previa valutazione delle autorità di Pechino. Secondo il giudice distrettuale, la richiesta ha di per sé evidenziato l’“ingenua” convinzione degli organizzatori di vedere esteso il suffragio anche all’organo esecutivo del centro finanziario asiatico. Così come avviene, solo parzialmente, per il Legislative Council (o LegCo), l’assemblea legislativa. Nel settembre 2020 gli elettori saranno chiamati a rinnovare i rappresentanti delle 35 circoscrizioni “geografiche”, mentre i 35 membri delle circoscrizioni “funzionali” sono cooptati tra la comunità finanziaria e la società civile. Ciò ha permesso alle forze pro-Pechino di mantenere stretto il controllo sul LegCo.
Nel “White Paper” del giugno 2014, il Consiglio di Stato cinese ha rivisitato la formula “un Paese, due sistemi” (yi guo, liang zhi), ora più “vivida” che mai, enfatizzando l’aspetto dell’unitarietà dello Stato e riservando alla specificità amministrativa uno spazio solo marginale. Sulla base degli accordi presi nel 1984 con le autorità britanniche, la Cina si è impegnata a preservare fino al 2047 il sistema economico e sociale di Kong Kong e a garantire l’indipendenza del potere giudiziario e un “alto grado di autonomia” in materia di diritti fondamentali individuali. Verosimilmente, da qui ai prossimi trent’anni il modello non sarà intaccato, non fosse altro perché la Basic Law rimane subordinata all’interpretazione e alle modifiche del Comitato Permanente del Congresso Nazionale del Popolo. Nulla di diverso rispetto a quanto pattuito, ma nell’ultimo quinquennio il massimo organo legislativo cinese ha spesso dimostrato di mal tollerare l’esistenza entro i propri confini di un modello capitalista e un sistema giudiziario indipendente. La sensazione è che la trappola legale all’interno della quale si trovano rinchiuse sia Hong Kong che Macao, l’altra regione speciale tornata alla madrepatria nel 1999, possa lentamente condurre all’uniformità amministrativa con il resto delle città cinesi: si parla, a tal proposito, di “mainlandization”.
Uso della forza, propaganda e sorveglianza
Sempre nel suo succinto messaggio ai taiwanesi, Xi non ha escluso di ricorrere a tutte le misure necessarie per stroncare aspirazioni separatiste tra cui, nel caso estremo, l’uso della forza militare. Si tratta di una opzione affatto trascurabile, peraltro rintracciabile già nella legge anti-secessione del 2005, che rimarca chiaramente la possibilità di deviare da un percorso pacifico di soluzione della crisi intra-cinese. Il presidente cinese ha chiarito che la forza non sarà utilizzata contro la popolazione, ma per frenare le interferenze esterne di chi appoggia e finanzia il movimento indipendentista.
Il riferimento è agli Stati Uniti, che a Taipei sono legati da una partnership strategica, sebbene non esistano rapporti diplomatici ufficiali. La visita nella capitale dell’ex Presidente della Camera statunitense Paul Ryan, in occasione del 40° anniversario del Taiwan Relations Act, ha inteso consolidare i legami commerciali e riaffermare l’impegno di Washington nella difesa dell’isola. Potendo contare sull’appoggio bipartisan della Commissione esteri del Senato, dove è in corso di discussione il Taiwan Assurance Act, l’amministrazione di Donald Trump è pronta a sottoporre un terzo accordo di vendita di equipaggiamento e mezzi militari, che richiede però una richiesta formale da parte del governo taiwanese. Dallo scorso febbraio, si sono intensificate le operazioni di sorvolo e navigazione sullo spazio aereo e marittimo di Taiwan della Settima Flotta del Pacifico e della Marina e dell’Aviazione dell’Esercito Popolare di Liberazione (EPL), come non accadeva dal 1999. Il report annuale del Pentagono presentato un paio di settimane fa al Congresso non ha escluso la possibilità che l’EPL possa presto sferrare un attacco all’isola. A conferma di questa escalation di prove di forza, risulta evocativo il messaggio del 18 marzo di Wang Weixing, Maggiore Generale dell’EPL, che invitava il personale militare taiwanese ad avviare una “profonda emancipazione ideologica” volta a scongiurare ogni aspirazione separatista.
Nell’isola non mancano i sostenitori della riunificazione. La Tsai ha autorizzato la messa al bando dei gruppi taiwanesi o della Cina continentale che promuovono convegni pro-indipendenza, con la complicità e i finanziamenti provenienti dalle scuole del PCC della provincia del Fujian, a cui Taiwan è legata da stretti rapporti culturali. Sotto accusa è anche la propaganda comunista cinese, veicolata dal web e dalle pagine di alcuni quotidiani taiwanesi. Il Ta Kung Pao e il Wen Wei Po avrebbero pubblicato fake news per influenzare il dibattito politico nazionale in vista delle elezioni presidenziali e legislative del prossimo gennaio. Inoltre, è in corso di discussione un provvedimento dello Yuan, il Parlamento monocamerale taiwanese, che consentirà di bloccare alcuni servizi video forniti dalle piattaforme cinesi di streaming Baidu e Tencent.
Oltre alla propaganda, si aggiunge poi il problema della stretta sorveglianza delle autorità cinesi sui cittadini taiwanesi che lavorano nel “mainland”. Peraltro, anche a Hong Kong è diventato difficile per i giovani riunirsi nei comitati studenteschi delle università. Dopo il settembre 2014, grazie alla stretta sinergia tra Pechino e il governo locale, è andata diffondendosi in città una “cultura mafiosa” che trova tra i principali obiettivi studenti, giornalisti e editori non allineati alle forze pro-establishment.
Patriottismo e uniformità culturale
“Scacciare i traditori della nazione per salvare il Paese” era uno degli slogan più ricorrenti del movimento giovanile del “Quattro maggio”. In passato, i nemici erano i giapponesi e i collaborazionisti, oggi, a distanza di un secolo, sono coloro che non danno mostra di attaccamento alla patria e di fedeltà al partito.
Il LegCo ha presentato un disegno di legge molto controverso che prescrive fino a tre anni di carcere per chi vilipende la bandiera e l’inno nazionale cinesi. Un provvedimento simile è stato invece già approvato a Macao. A Taiwan, la riforma del 1997 ha avviato un processo di “de-sinizzazione”, che ha portato alla revisione dei manuali scolastici e alla valorizzazione dell’identità culturale taiwanese, opportunamente distinta da quella cinese. Pechino non ha mancato di osteggiare questa forma di revisionismo, auspicando la via della collaborazione accademica sia nell’isola che a Hong Kong.
Nella Pechino post-imperiale, i manifestanti riuniti in piazza Tiananmen si appellavano alla “Signora Scienza” e alla “Signora Democrazia” per costruire le basi del rilancio culturale e politico del sistema repubblicano allora concepito dall’allora presidente Sun Yat-sen. In una fase delicata come quella attuale, Xi sembra aver fretta di assimilare Hong Kong e Macao all’interno del sistema di governo cinese e apportare cambiamenti sostanziali alle relazioni con i separatisti taiwanesi entro il centenario della RPC, nel 2049. Tuttavia, la notizia del probabile dissolvimento dell’Hong Kong National Party, il primo movimento dichiaratamente indipendentista nato dalle ceneri della rivolta del 2014, ha procurato l’ennesima crepa allo schema autonomista di Deng Xiaoping, poiché non solo svaluta i diritti civili e politici, ma non ha finora favorito la convivenza tra il modello democratico e quello socialista. In questo contesto, le nuove generazioni di cinesi non potranno probabilmente più fare affidamento sull’aiuto di quelle stesse “signore” evocate dai loro avi un secolo prima.