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20 miltari indiani uccisi
Cina-India: scontri al confine e volontà di potenza
Ugo Tramballi
16 giugno 2020

Alla fine del loro secondo “summit informale” – ottobre dell’anno scorso, Mahalipuram nel Tamil Nadu – Narendra Modi e Xi Jinping, decisero che nel 2020 avrebbero dato il risalto dovuto al settantesimo anniversario delle relazioni indo-cinesi. Furono messi in programma 70 eventi ufficiali. Era il minimo che si potesse fare per l’amicizia fra i due giganti asiatici ai quali dovrebbe appartenere il XXI secolo: per le loro dimensioni, le crescite economiche e le ambizioni geopolitiche.

Nessuno dei 70 eventi è stato celebrato. Ma nonostante il Covid, sebbene l’India non sia in grado di controllare la pandemia e la Cina abbia nuovi focolai nella capitale, i due paesi continuano il loro saltuario conflitto a bassa intensità per il controllo dei territori più alti che la Terra conosca. Neanche nella penisola coreana sembra che il Covid sia un elemento di moderazione politica.

Nessun negoziato, non i due vertici informali fra i leaders (il primo, nel 2018, si svolse a Wuhan) e nemmeno la necessità di concentrare le loro risorse sulla crescita economica, hanno mai spinto i due nemici, partner per quasi tutto il resto, a chiudere l’infinita disputa frontaliera. Perché un confine in comune difficilmente è un fattore di fraternità. Quando due paesi ne hanno uno frastagliato di oltre 4mila chilometri, più che un’opportunità è un problema.

Nell’ultimo scontro della valle di Galwan sotto il controllo indiano ma rivendicata da Pechino, nella regione dell’Aksai Chin, cioè il Ladakh controllato dai cinesi ma rivendicato da Delhi, la causa ufficiale è una strada. L’hanno costruita gli indiani lungo il fiume Shyok che attraversa tutta la vallata: serve per rifornire di uomini e armi le postazioni avanzate in caso di conflitto. “Atto provocatorio” lo avevano definito i cinesi che in queste settimane avevano mandato lungo quel confine mezzi, uomini e alcuni reparti d’élite.

Come in tutti gli altri episodi in questi decenni, sia i cinesi che gli indiani sostengono che i loro avversari hanno ripetutamente violato le linee di separazione. Linee particolarmente virtuali: sono quelle fissate dalla LAC, la Line of Actual Control, l’equivalente occidentale della Linea McMahon che divide l’Himalaya a Est. Fu stabilita dopo la guerra del 1962, disastrosamente persa dagli indiani, da questi ultimi contestata immediatamente dopo. Secondo Delhi, alla fine del conflitto i cinesi occuparono illegalmente 38mila chilometri quadrati di territorio indiano.

Martedì 16 giugno, dopo le reciproche accuse di sconfinamento, cinesi e indiani son passati alle vie di fatto. Era dal 1975 che non si sparava un colpo di fucile nell’Aksai Chin. Sembra non sia accaduto neanche questa volta: secondo le prime ricostruzioni, i cinesi avrebbero ucciso venti soldati indiani picchiandoli a morte. Gli ufficiali delle due parti si sarebbero immediatamente incontrati “per disinnescare la situazione”. Forse nessuno aveva intenzione di arrivare allo scontro, probabilmente questa della pandemia non è la stagione perché Cina e India affrontino avventure incerte quanto la scoperta di un vaccino e la vittoria sul Covid.

Tuttavia, il rischio di un’escalation è fatalmente alto lungo gli oltre 4mila chilometri di frontiera. Nel maggio del 2018 c’era stato uno scontro nel Sikkim, più a Est. Ancora una volta a causa di una strada che i cinesi avevano costruito sull’altopiano di Doklam, che il pacifico Bhutan rivendica come suo e i cinesi no. La crisi durò due mesi, non ci furono vittime ed è considerata una vittoria tattica indiana. Non è detto che questo ultimo scontro possa essere chiuso in tempi più brevi.

Perché la strada che conta non è quella indiana costruita nella valle arida di Galwan: il tracciato lungo la vallata sta all’attrito geopolitico indo-cinese come il rapimento di Elena alla guerra di Troia. La strada più importante, costruita da Pechino nella regione fra Ladakh e Kashmir, è quella che parte più a Nord, a Kashgar in Cina, e scende attraversando il Pakistan fino alle sue coste sull’Oceano Indiano. È il Corridoio economico sino-pakistano, parte della più vasta rete della Via della Seta. Il corridoio attraversa anche il Kashmir amministrato dal Pakistan. A dispetto della grande cordialità mostrata da Modi e Xi nei due summit informali, ai cinesi non è piaciuto che il Bjp, il partito di governo di Modi abbia retrocesso il Kashmir indiano da stato a regione autonoma; e poi abbia minacciato di annettere il Kashmir pakistano.

Ai MED Dialogues di Roma, lo scorso dicembre, era stato chiesto al ministro degli Esteri indiano se il suo paese ambisse a diventare una superpotenza. È uno sviluppo naturale, aveva risposto Subrahmanyan Jaishankar. Sono la demografia, la collocazione e le dimensioni geografiche, la crescita economica, che porteranno l’India ad essere una grande potenza globale. Ma, aveva concluso, “diversamente da altri, noi non minacceremo mai nessuno”. È evidente che “gli altri” fosse la Cina di Xi: a partire da quei 4mila chilometri di frontiera contesa da due superpotenze nascenti, e che nessun compromesso diplomatico potrà rendere un luogo di pace.

 

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Tags

Asia Cina India Xi Jinping Narendra Modi Kashmir
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AUTORI

Ugo Tramballi
ISPI Senior Advisor - India Desk

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