La nuova era imperiale di Xi? | ISPI
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Commentary

Cina: ritorno all'era imperiale

Filippo Fasulo
30 novembre 2022

Una delle massime più note del pensiero politico cinese recita “il Cielo è alto, l’Imperatore è lontano”. Il significato è duplice: da un lato rappresenta un certo grado di autonomia politica delle aree periferiche, ma dall’altro fa ricadere sugli amministratori locali e non su quelli centrali le responsabilità per eventuali cattive gestioni di casi locali.

Un atteggiamento di questo tipo lo si può riscontrare anche nelle prime reazioni all’emersione della pandemia a Wuhan nel gennaio 2020. Le mancanze di una gestione tempestiva sono state imputate agli amministratori locali di Wuhan e della provincia dello Hubei, mentre Xi Jinping si è premurato di far sapere ex-post (in febbraio) che lui aveva avvertito i politici locali di prendere sul serio la nascente pandemia già dal 7 di gennaio. Allo stesso modo, le prime decisioni assunte nel momento di maggiore di criticità e dunque senza conoscere quale sarebbe stata la traiettoria della pandemia, ovvero l’istituzione del lockdowns il 21 di gennaio, sono state comunicate come se fossero una decisione collegiale di tutto il Comitato Permanente del Politburo del Partito Comunista Cinese (PCC), il massimo organo del PCC, e non solo del Segretario Generale. Quando però c’è stato da assumersi i meriti per una vittoria – quanto mai effimera e parziale – sulla pandemia, Xi Jinping si è ripresentato da solo al centro della scena. Una tale mossa è coerente con tutto il percorso politico di Xi, caratterizzato da una inesorabile crescita della personalizzazione e della centralizzazione del potere. Le responsabilità sono sue, anche delle scelte più drastiche. Lo stesso vale per le decisioni sui lockdowns della primavera 2022, in particolare a Shanghai.

Le durissime imposizioni di allora avevano causato parecchio malcontento, per l’arbitrarietà dell’imposizione di misure di confinamento e per il disastro logistico che ne è seguito, comportando difficoltà persino di approvvigionamento alimentare per molti cittadini. L’eco impopolare di quelle scelte è stato talmente forte che nei giorni che hanno preceduto il XX Congresso del PCC un uomo ha esposto uno striscione di critica su una delle circonvallazioni di Pechino. Tuttavia, il Segretario Generale non solo non ha ritenuto di dover fare autocritica sulla gestione di Shanghai in primavera, ma ha indicato come numero 2 del Partito, e dunque come possibile premier dal prossimo marzo, proprio il Segretario uscente di Shanghai, Li Qiang. Il messaggio da parte di Xi, allora, è quello di una sua piena condivisione delle modalità di gestione del Covid. Bisogna tenere conto, infatti, che, prima di essere promosso, si ipotizzava che Li Qiang sarebbe stato estromesso per gli errori nella gestione di Shanghai. È con queste premesse che si riesce a comprendere come si sia arrivati a una svolta importante nelle proteste che a fine novembre si sono diffuse in alcune delle maggiori città del Paese contro le misure anti-Covid e in reazione di una grave incendio a Urumqi. Contrariamente al considerare “l’imperatore lontano”, il tratto principale di tali proteste è una critica diretta a Xi Jinping.

 

Dalla tecnocrazia al ritorno dell’ideologia

Si tratta di un episodio simbolico che apre una nuova fase per l’esperienza politica di Xi, oggi davvero “uomo solo al comando”, un obiettivo cercato fin dal Terzo Plenum del Comitato Centrale del PCC svoltosi nell’autunno 2013, il primo incontro plenario del partito dopo il ciclo di rinnovo dei vertici che lo aveva portato alla guida di PCC e Repubblica Popolare Cinese (RPC) tra l’autunno 2012 e la primavera 2013. In quell’occasione Xi aveva promosso una riforma del meccanismo decisionale del PCC che gli aveva di fatto attribuito una piena supervisione di tutte le deleghe politiche, in contrasto con la collegialità del decennio 2002-2012 sotto la guida del duo Hu Jintao e Wen Jiabao. Tuttavia, Xi Jinping si trovava comunque a trattare – pur partendo da una posizione di forza – nel comitato permanente del Politburo con i rappresentanti di altre fazioni che tentavano di portare avanti le proprie istanze. Dunque, c’erano altri portatori di interessi e le decisioni finali dovevano comunque tenere conto di un certo bilanciamento tra diverse linee politiche.

Dopo il XX Congresso, invece, i sette componenti del Comitato Permanente – tra cui proprio il Segretario Generale Xi Jinping – sono tutti espressione diretta di Xi, che si trova non più a dover trattare con portatori di linee politiche alternative ma, di fatto, con semplici esecutori di una linea politica che lui solo determina. Questa circostanza permette anche di mettere in prospettiva una linea di tendenza definita come l’ascesa dei “tecnocrati 2.0”. Infatti, con le riforme di Deng degli anni ’80 si era visto un graduale aumento di dirigenti di partito con un background tecnico, tanto che nel 1997 queste figure rappresentavano più della metà dei membri del Comitato Centrale del PCC. Dopo un drastico calo dei tecnocrati fino ad appena il 17,6% del totale nel 2017, negli ultimi anni c’è stato un deciso ritorno di dirigenti con esperienza nel settore aereospaziale, nell’intelligenza artificiale, nelle nanotecnologie o nelle scienze della vita. Una dinamica simile la si può osservare anche fra i leader delle province, oggi in larga parte con un curriculum tecnico.

Tuttavia, oltre a esserci differenze di formazione con i predecessori – i tecnocrati degli anni ’80-’90 si erano formati in Unione Sovietica, questi in Occidente – è il contesto politico che è cambiato. Lo stesso Jiang Zemin, morto il 30 novembre 2022 a 96 anni, era un tecnocrate (il New York Times titolò l’articolo che ne presentava l’ascesa nel 1989 come MAN IN THE NEWS; An Urbane Technocrat: Jiang Zemin) al potere in una fase con tendenze post-ideologiche e ispirate dal dibattito sulla separazione fra Stato e Partito. Secondo questa linea sostenuta dallo stesso Deng fin dagli anni ’80, il Partito si sarebbe dovuto gradualmente limitare a definire gli indirizzi politici di fondo, lasciando allo Stato il compito di amministrare. L’esperienza politica di Xi Jinping, invece, è proprio l’opposto. Lui predica il ritorno del pieno controllo del Partito sulla vita politica della Repubblica Popolare cinese (RPC), lamentando proprio nella perdita di presa ideologica non soltanto l’ascesa della corruzione – diventata sicuramente endemica negli anni 2000 – ma addirittura il rischio di collasso del PCC sul modello del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, il grande spauracchio che segna l’esperienza politica di Xi. Quindi non più tecnocrati al potere con capacità di indirizzo politico in un sistema attraversato da un processo di graduale de-ideologizzazione, ma esperti al servizio di una linea politica caratterizzata dal pieno ritorno della spinta ideologica.

 

L’Imperatore Xi è più vicino?

Tali esperti, dunque, devono consigliare Xi nel prendere decisioni tecniche che consentano alla Cina di raggiungere gli obiettivi fissati per il 2035 e per il 2049. Una prima scadenza sarà però nel 2025, quando la Cina potrà verificare gli obiettivi che si era posta nel 2015 nel famoso piano Made in China 2025 indirizzato al rafforzamento della qualità del tessuto industriale cinese. Tuttavia, è probabile che tali risultati non vengano raggiunti per effetto delle contromisure adottate dagli Stati Uniti nel contesto della cosiddetta Tech War, svelando in qualche maniera un fallimento di una strategia delineata da Xi. In aggiunta è lecito aspettarsi una condizione economica lontana dai livelli massimi dei decenni passati che metterà sotto pressione la guida amministrativa oggi chiaramente personalizzata nella figura dello stesso Xi. Per queste ragioni è possibile che si possano vedere ulteriori manifestazioni come quelle di questi giorni nei prossimi anni, proprio perché “l’imperatore” non è più “lontano”.

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Geoeconomia Cina Xi Jinping
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Filippo Fasulo
ISPI

Image Credits (Unsplash License): Kayla Kozlowski

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