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ISPI Watch

Cina-USA: il decoupling è davvero possibile?

Filippo Fasulo
11 febbraio 2020

Il 2020 sarà il terzo anno di guerra commerciale fra Cina e Stati Uniti, un processo avviato nel marzo 2018 poco dopo che il presidente Xi Jinping aveva completato il suo percorso di centralizzazione del potere con la revisione costituzionale sul limite di mandati presidenziali e pochi mesi dopo la visita del presidente Donald Trump in Cina che era stata salutata generalmente come una manifestazione di forza di Xi su Trump. Da quel dicembre 2017 lo scenario è radicalmente mutato e non solo si parla apertamente di “nuova guerra fredda” in maniera strutturale, ma si è addirittura passati a considerare questo scenario come stabile e pertanto a spostare l’attenzione sui costi economici di una tensione di lungo periodo.

Tali premesse servono per inquadrare il contesto della guerra commerciale, che non è soltanto una disputa su surplus e deficit nell’interscambio bilaterale, quanto piuttosto una revisione delle relazioni tra i due paesi in una dinamica in cui la Cina di Xi Jinping dichiara apertamente obiettivi di primato economico e tecnologico sul medio e lungo periodo mentre, allo stesso tempo, rende manifesta la volontà di non conformarsi al modello politico liberal-democratico adottato in Occidente. Dunque, le differenze economiche assumono una connotazione ideologica che conferisce un ruolo strategico al primato in settori industriali d’avanguardia, come ad esempio le telecomunicazioni o le applicazioni dell’intelligenza artificiale.   

In un tale contesto, la parola che più ricorre nel dibattito fra Cina e Stati Uniti, e che rappresenta il maggior costo di questo periodo di tensioni, è “decoupling”, ovvero il disaccoppiamento tra le due maggiori economie del mondo, tanto che il Financial Times l’ha indicata tra le parole del 2019. Decoupling vuol dire, nei fatti, rilocalizzare la produzione delle imprese americane fuori dalla Cina  in settori ritenuti strategici, preferibilmente verso altre destinazioni, soprattutto in Asia, o negli Stati Uniti (“reshoring”). L’esempio più noto è quello della produzione dei prossimi iPhone spostata in India, ma sono molte le liste che includono più di 50 grandi aziende americane, e non solo, che hanno avviato un processo di trasloco. La dinamica non è interamente nuova, tanto che il South China Morning Post parla di una “prima ondata” nel 2018 cui ha fatto seguito una seconda negli ultimi mesi del 2019. Il punto più importante è che alle motivazioni sull’aumento del costo del lavoro degli anni passati si è aggiunta ora una motivazione di opportunità come conseguenza della Trade War. Ci si aspetta che nel 2020 il disaccoppiamento possa manifestarsi con maggiore forza, coinvolgendo anche le aziende straniere della filiera che avevano seguito in Cina il partner di cui sono fornitori. Tuttavia, il processo non sarà immediato e avrà bisogno di qualche anno per completarsi del tutto. 

Dal lato cinese vi è la percezione che un tale fenomeno rappresenti una nuova normalità e si lavora per ridurre l’esposizione della propria industria alle pressioni americane. Tra i termini maggiormente citati da Xi Jinping nel 2019, vi sono infatti il “rischio” e il “cigno nero”, ovvero un evento inaspettato. In questo caso il rischio inaspettato è costituito dalla guerra commerciale di Trump che, come ricordato, nel dicembre 2017 sembrava incapace di muovere nel giro di tre mesi una guerra commerciale che, pure, aveva annunciato nel corso di tutta la sua campagna elettorale affidandosi a noti critici delle politiche economiche cinesi come Peter Navarro. Questa scelta ha di fatto spiazzato la Cina che si è ritrovata una forte pressione sulla propria economia già gravata dal rallentamento della crescita del Pil e da problemi strutturali come l’eccessivo indebitamento, il calo della produttività e il difficile compromesso tra le ragioni della crescita economica e quelle della tutela ambientale.

Il risultato è un rafforzamento di politiche di innovazione e di sviluppo industriale fortemente concentrate sulla produzione nazionale, secondo il principio di derivazione maoista della “self-reliance” (Zili gengsheng), in pratica auto-sufficienza nel ciclo produttivo. È possibile rinvenire questo principio nella decisione di sostituire pc e software stranieri con prodotti cinesi in tre anni, ma anche e soprattutto nel piano di riqualificazione industriale Made in China 2025 – lanciato nel 2015 –, in particolare nella forma della promozione dell’innovazione indigena. L’interpretazione in chiave strategica della propria forza industriale e di innovazione, infatti, è un principio da sempre presente nel lessico politico cinese che ha trovato, però, nuovo vigore dallo scontro commerciale con Trump. La Cina ha così ben chiaro che per i propri propositi strategici ha bisogno di ridurre quanto più possibile la propria dipendenza economica dall’estero, in particolare dagli Stati Uniti, un concetto che si è saldamente fissato negli ultimi due anni e che probabilmente costituirà il perno della politica industriale cinese nel 2020 e negli anni a venire. Tale proposito è stato rimarcato anche il 13 gennaio dall’ex-ministro dell’Industria e dell’Information Technology Li Yizhong che ha sottolineato come attualmente l’autosufficienza nella produzione di materiali e componenti chiave sia solo del 30% con l’obiettivo di raggiungere il 40% per la fine dell’anno e il 70% nel 2025, alla fine della prima fase del piano Made in China 2025.

Le conseguenze per il commercio internazionale sono molteplici, ma hanno soprattutto a che fare con l’interdipendenza. Infatti, se il timore diffuso è che sia Trump a voler “sganciare” l’economia americana da quella cinese, compresa la “biforcazione” tra un’internet in Occidente e uno in Cina, come ammonito dall’ex Ceo di Google Eric Schmidt, in realtà tale fenomeno sembra essere già in atto, ma su spinta cinese. A questo proposito, non solo dalla metà degli anni 2000 è in vigore il “Great Firewall” che isola la rete cinese dal resto del mondo – che allo stesso tempo ha sviluppato un proprio ecosistema digitale senza Google, Facebook e Amazon –, ma le rilevazioni di McKinsey riportano come nel nuovo millennio la Cina abbia ridotto la propria esposizione verso il mondo, mentre allo stesso tempo aumentava quella mondiale nei confronti della Cina. Tale circostanza è in funzione anche di un aumento della domanda interna e, con cause ancora da definire con certezza, nell’ultimo anno le importazioni manifatturiere sono calate a fronte di una economia in crescita.

Su queste basi, le prospettive per il 2020 sono di una graduale riduzione dell’interdipendenza commerciale dovuta essenzialmente a ragioni strategiche: nuove per quanto riguarda gli Stati Uniti e rinnovate per la Cina. La natura strategica di tale dinamica porta a considerarla come ormai strutturale e induce a inserire il decoupling come componente stabile dello scenario globale.       

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AUTORI

Filippo Fasulo
Fondazione ItaliaCina

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