La vita professionale di Colin Powell, morto lunedì 18 ottobre a 84 anni, ha attraversato quasi cinquant’anni di storia politica e militare degli Stati Uniti, dall’entrata in servizio come sottotenente alla fine degli anni Cinquanta all’approdo alla Segreteria di Stato, durante il primo mandato presidenziale di George W. Bush (2001-2005). Sebbene la sua immagine resti legata in maniera indelebile alle vicende che hanno portato all’intervento militare in Iraq nel 2003 e alla sua presa disposizione sui programmi perseguiti da Baghdad, la sua biografia umana e professionale è molto più complessa e articolata. Figlio di immigrati giamaicani, Powell entra nell’esercito durante gli anni dell’università, tramite il Reserve Officers’ Training Corps, prestando servizio in Germania Occidentale, Vietnam (due turni) e Corea del Sud e ricoprendo vari incarichi in patria, sia in ambito operativo, sia di stato maggiore. Il primo contatto con l’amministrazione risale all’inizio degli anni Settanta, quando entra nello staff dell’allora Vicedirettore dell’Office of Management and Budget, Frank Carlucci. Successivamente, dai primi anni Ottanta, la sua attività di comando è stata intercalata sempre più spesso da ‘incursioni’ nel mondo della politica. Negli anni della presidenza Reagan è assistente del Segretario alla Difesa, Caspar Weinberger (1983-86), Vice consigliere per la sicurezza nazionale, di nuovo accanto a Carlucci (1987), e, dopo il passaggio di quest’ultimo al Dipartimento della Difesa in seguito alle dimissioni di Weinberger, Consigliere per la sicurezza nazionale (1987-89).
Come Consigliere per la sicurezza nazionale, Powell è uno dei protagonisti della ‘politica dei summit’ che caratterizza il sistema delle relazioni USA-URSS fra il 1985 e il 1991. In questa funzione, egli getta le basi per quel profilo moderato – da ‘generale riluttante’ – che avrebbe confermato come capo degli stati maggiori riuniti, incarico assunto nell’ottobre 1989 e tenuto fino al settembre 1993. Significativamente, nel 2018, lo stesso Powell avrebbe espresso le sue riserve per la scelta dell’amministrazione Trump di ritirare gli Stati Uniti dal trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio (trattato INF, 1987), uno dei cardini dell’architettura di sicurezza elaborata negli anni della collaborazione fra Washington e Mosca. L’altro grande impegno di Powell come Capo degli stati maggiori riuniti è la campagna in Kuwait e Iraq del 1990-91 (operazioni Desert Shield, Desert Storm e Desert Sabre), campagna che – sullo sfondo della Guerra fredda declinante – si propone come una sorta di vetrina del nuovo ruolo internazionale di Washington e delle sue ritrovate capacità militari. Alla conduzione (tecnica ma anche politica) di questa campagna è legata, in larga misura, la sua popolarità mediatica e che, successivamente, si traduce in voci di una possibile candidatura prima alla vicepresidenza (1992), poi alla presidenza, nel 1996 prima, quindi nel 2000. È in questi anni, inoltre, che si forma quella che la stampa avrebbe poi ribattezzato ‘dottrina Powell’, destinata a governare l’impiego delle forze armate statunitensi sino al punto di svolta dell’11 settembre.
Proprio la formalizzazione delle otto domande alla base della ‘dottrina Powell’ rappresenta forse il maggior contributo del futuro Segretario di Stato alla azione politica di Washington. Muovendo dai ‘sei test’ della vecchia dottrina Weinberger (1984), Powell cerca, con questo strumento, di definire un criterio di impego dello strumento militare che sia subordinato al perseguimento degli interessi vitali del paese, all’esistenza di un ampio sostegno interno e internazionale, all’esaurimento di ogni possibile corso di azione alternativo e alla presenza di una credibile exit strategy, capace di evitare impegni ‘aperti’ e non politicamente sostenibili sul lungo periodo. Una visione pragmatica – ‘realista’ e ‘limitativa’ – dell’uso della forza, che conferma l’immagine del ‘generale riluttante’ e che riflette lo sforzo in atto, all’interno all’amministrazione di George H.W. Bush, per cercare di adattare in maniera prudente il ruolo degli Stati Uniti a una scena internazionale che – con la scomparsa dell’Unione Sovietica – stava diventando via via più volatile. In questa prospettiva, è indicativo che – dopo il successo nelle elezioni del novembre 1992 – Powell sia confermato alla guida dei capi di stato maggiore riunti dalla nuova amministrazione Clinton, nonostante la diversa visione che questa ha del ruolo internazionale di Washington e nonostante gli screzi che accompagnano il rapporto dello stesso Powell con alcuni collaboratori-chiave del Presidente, come il Segretario alla Difesa, Les Aspin, e l’allora Rappresentante permanente alle Nazioni Unite, Madeleine Albright.
È con questa fama di realista e di moderato che Powell – agli inizi del 2001 – entra come Segretario di Stato nella prima amministrazione di George W. Bush; una fama che, nei giorni della crisi irachena, l’amministrazione cerca di capitalizzare, facendone il volto pubblico della campagna per dare legittimazione internazionale all’azione contro Baghdad. Al di là delle fragilità – già largamente note – del discorso del 5 febbraio al Consiglio di sicurezza, ciò che colpisce nella vicenda è il modo in cui il Powell politico si allontana dai principi esposti dieci anni prima dal Powell militare. In effetti, le condizioni sotto cui è deciso l’avvio dell’operazione Iraqi Freedom contrastano pressoché in toto con quelle della ‘dottrina Powell’; un indice – forse – della debolezza della posizione del Segretario di Stato all’interno dell’amministrazione, che si sarebbe accentuata dopo l’avvio delle operazioni militari. Negli anni seguenti, Powell sarebbe tornato più volte sulla questione dell’intervento in Iraq, riconoscendo quelli che ha definito gli errori e la superficialità delle analisi su cui poggiava la sua denuncia dei programmi militari di Saddam Hussein. In un’ottica di lungo periodo, le sue maggiori debolezze sono state, però, forse, altre: l’adesione a un pragmatismo che trovava scarso appoggio nell’entourage presidenziale e la volontà di giungere comunque alla formazione di una ‘volontà internazionale’ condivisa, anche quando i preparativi per l’intervento e la retorica incendiaria delle diverse parti in campo avevano ridotto a zero gli eventuali spazi di manovra.