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Commentary

Colombia, la pace impossibile?

Lucia Capuzzi
03 ottobre 2016

La paura ha vinto. La “pace d’inchiostro”, firmata solennemente dalle parti a Cartagena il 26 settembre, è stata rifiutata dalle urne. Il 51,3% dei colombiani ha respinto l’accordo raggiunto all’Avana tra il governo del presidente Juan Manuel Santos e le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc). Un risultato del tutto imprevisto che rimette in discussione tre anni e nove mesi di negoziati giunti, con sforzi inediti, a buon fine. Fino all’ultimo, si era temuto che il tavolo negoziale – il quarto costituito in 52 anni di conflitto – saltasse. E che i rappresentanti delle parti tornassero a casa a mani vuote. Più volte, si era andati vicini alla meta e, improvvisamente, la trattativa s’era impantanata, facendo slittare la conclusione del negoziato. Alla fine, nella notte tra il 24 e il 25 agosto, l’annuncio: l’accordo era stato raggiunto. La cerimonia della firma a Cartagena, un mese dopo, alla presenza di vari leader internazionali, sembrava il coronamento del sogno: la possibilità di mettere fine a oltre mezzo secolo di guerra. Il voto popolare, però, ha infranto le speranze. Perché mai? Certo, la maggior parte degli elettori del “no” – in un contesto di elevatissimo astensionismo, a quota 63% – proviene dalle città dove il conflitto ha colpito con molta meno forza. La guerra, con le sue 260.000 vittime e sette milioni di sfollati, è stato un fenomeno essenzialmente rurale. Eppure nemmeno tale constatazione basta a spiegare le ragioni profonde del “no”. Che affondano le loro radici nella paura, da sempre il grande elettore colombiano.

Che cosa e chi spaventa l’accordo? Il patto sottoscritto è, per ammissione degli stessi autori, un testo imperfetto. Non poteva essere diversamente data la delicatezza dei nodi affrontati. Diviso in sei capitoli, l’accordo prevede, in primo luogo, una riforma agraria. Le Farc sono nate, nel 1964, proprio come un movimento contadino marxista che si batteva contro il latifondo. Tuttora, la concentrazione delle terre in Colombia è tra le più alte al mondo: il 4% della popolazione possiede oltre la metà degli appezzamenti. Il trattato statuisce meccanismi di redistribuzione dei terreni abbandonati durante la guerra. Non si tratta di una “rivoluzione agraria” bensì di correttivi minimi. Quanto basta, però, per scatenare le ire dei grandi proprietari, in prima linea nella campagna del “no”. Insieme a una parte delle Forze armate – che grazie alla guerra ha visto incrementare considerevolmente, anno dopo anno, budget e potere – e un settore politico – quello di Uribe – il quale ha costruito i propri consensi sull’intransigenza ai negoziati.

Le questioni più controverse – e indigeste per l’opinione pubblica nazionale – sono, però, la partecipazione politica degli ex guerriglieri e, soprattutto, la giustizia per i responsabili di crimini contro l’umanità durante l’oltre mezzo secolo di guerra. L’accordo permette alle Farc di proseguire la propri battaglia senz’armi bensì nell’arena politica. La guerriglia può costituirsi in partito politico e competere alle elezioni come forza legale. Nel frattempo, già dalle presidenziali del 2018, avrà una rappresentanza minima di cinque deputati al Congresso e cinque senatori. Un passo – hanno ribadito i principali analisti – necessario: l’esclusione dalla vita politica di una parte di società è stata una delle radici della guerra. Lo sterminio di 5.000 guerriglieri smobilitati dopo un tentativo di accordo, nel 1984, ne ha impedito una risoluzione effettiva per i tre decenni successivi. Eppure, tanti colombiani – anche grazie alla martellante propaganda dell’ultradestra – considerano ancora inaccettabile vedere gli ex guerriglieri in parlamento e non in carcere.

E qui si arriva alla questione cruciale – e ultra sensibile – della giustizia transizionale con cui il trattato prevede che vengano giudicati gli ex criminali di guerra. Il 23 settembre 2015, governo e Farc sono arrivate al faticoso compromesso di creare una “giurisdizione speciale” per garantire verità e riparazione alle vittime del conflitto. Il cuore del sistema è costituito dal “tribunale di pace”. I cui magistrati saranno nominati dalla Corte suprema colombiana e dai due massimi organismi giuridici nazionali. Chi si sia macchiato di gravi delitti – siano esso un ex membro delle Farc, militare o paramilitare – e ammetta le proprie responsabilità, contribuendo a far luce sulla verità, otterrà forti sconti. Gli altri verranno rinviati alla giustizia ordinaria. La giustizia transizionale – applicata in altri processi di riconciliazione, in primis in Sud Africa – mette al centro la vittima e la sua esigenza di riparazione piuttosto della punizione del colpevole. Per Ingrid Betancourt – l’ostaggio più celebre delle Farc per oltre sei anni e uno degli emblemi della sofferenza dei colombiani -, la parte relativa alla giustizia è un “capolavoro”. Perché – ha spiegato – il patto va oltre il concetto di giustizia classico, di tipo punitivo, e apre alla giustizia transizionale, che presume la riparazione del danno e la possibilità per il condannato di trasformarsi e cambiare la propria condotta in modo da poter essere reintegrato nella società. Il controllo da parte della comunità internazionale è, inoltre, per i sostenitori del sistema, garanzia di trasparenza ed equità. Sulla stessa linea, la Chiesa – colombiana e la Santa Sede, con i numerosi messaggi pubblici di papa Francesco – che in questi anni di negoziato ha giocato un ruolo cruciale nell’accompagnare le vittime. Monsignor Luis Augusto Castro Quiroga, arcivescovo di Tunja, presidente della Conferenza episcopale colombiana e della Commissione di conciliazione nazionale, è stato incaricato di moderare i confronti tra le vittime e le delegazioni riunite a Cuba per i negoziati. Così, lo scorso inverno, gli è toccato accompagnare – a gruppi di dodici alla volta –, uomini e donne le cui vite erano state, in diversi modi, sfregiate dal conflitto. “La pace è una loro vittoria – ha detto –. Quest’ultima non significa impunità, come spesso è accaduto in altri conflitti che hanno insanguinato l’America Latina. Al contrario, gli accordi hanno previsto un sistema di giustizia transizionale che riconosce il dolore dei troppi colpiti”. Eppure, per i contrari all’accordo la giustizia transizionale non è altro che un’impunità mascherata oltre che un cedimento nei confronti delle Farc. Questa è l’immagine che essi hanno “venduto” ai colombiani, facendo leva sulle loro sofferenze.

Che accadrà ora? Difficile ipotizzare un ritorno alle armi nel breve periodo. Di certo, però, il rifiuto dei colombiani può spingere quei fronti più diffidenti della guerriglia a ribellarsi alle direttive del Segretariato centrale. Anche perché le Farc non sono l’unico gruppo armato illegale. C’è l’Ejercito de Liberación Nacional (Eln), i cui colloqui di pace con il governo, annunciati per la fine di marzo, sono ancora in fase di stallo. E soprattutto ci sono le Bacrim, una serie di formazioni nate dallo scioglimento dei paramilitari delle Autodefensas Unidas de Colombia (Auc). Queste ultime hanno già intensificato la “campagna di reclutamento” fra gli ex nemici Farc. Un’alleanza singolare – ideologicamente le due formazioni sono opposte – eppure spiegabile con l’evoluzione perversa del conflitto colombiano. Dagli anni Ottanta – con il boom internazionale della cocaina – i movimenti guerriglieri hanno iniziato a finanziarsi con i proventi della droga, finendo per trasformarsi in organizzazioni criminali mondiali. Con un portafoglio di attività illegali che spaziava dal narcotraffico, alle miniere clandestine alle estorsioni. Sciolte le Farc – come prevede l’accordo –, le bande superstiti, a prescindere dall’ideologia di riferimento, hanno già intrapreso la battaglia per conquistarne l’eredità criminale. Il loro richiamo – data l’instabilità politica – è ora ancor più potente sui quadri intermedi della guerriglia. Questi ultimi potrebbero semplicemente “cambiare casacca”, a dispetto degli impegni presi dai leader nella decima e ultima conferenza del gruppo, terminata il 24 settembre, e ribaditi dopo l’esito del referendum.

La vittoria del no, ora, implica un momento di riflessione per tutte le parti. Il presidente Santos ha già annunciato la convocazione delle forze impegnate nella campagna del no per trovare un equilibrio e poter proseguire sulla strada delle pace. Più impervia che mai. Riuscirà, dunque, la Colombia a sottrarsi alla profezia dei Cent’anni di solitudine? Ad avere una seconda opportunità sulla terra? Solo la società, nel suo insieme, ha la risposta. Alla comunità internazionale non resta che continuare a sostenere il processo.

 

 

 

Lucia Capuzzi, giornalista, lavora nella redazione Esteri di Avvenire.

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