A Londra nel nome della Brexit si sono visti cortei senza precedenti, eccetto, forse, per quelli contro la guerra in Iraq. Molte centinaia di migliaia di remainers – per i più ottimisti, oltre il milione – sono sfilate per le strade della capitale in almeno tre distinte occasioni, l’ultima a metà ottobre. Allineati dietro uno slogan: people’s vote, ovvero un nuovo referendum sul destino europeo del regno di Elisabetta.
A decidere se si farà o meno una nuova consultazione non saranno, ovviamente, i dimostranti, ma gli elettori tutti chiamati alle urne, una volta ancora, il 12 dicembre: elezioni che si consumeranno esclusivamente sulla soluzione al rovello che scuote Londra dal giugno 2016.
Gli spasmi della Brexit si sono contratti nel collasso totale del sistema britannico, paralizzato dal conflitto fra esecutivo e legislativo, con un governo senza maggioranza parlamentare e un parlamento incapace di trovare consenso su una formula sufficientemente condivisa da permettere il superamento della crisi. La contrapposizione ideologica classica tory-labour s’è spenta, archiviando il “tribalismo” radicale del bipolarismo britannico. Al suo posto c’è il fluire, disordinato, di laburisti brexiters pronti a votare con conservatori brexiters, conservatori remainers pronti a votare con laburisti remainers, conservatori e laburisti remainers pronti a lasciare i rispettivi partiti per unirsi con i LibDem. Un rimpasto delle idee che si muove al ritmo del tasso di voglia (o non voglia) di Europa, così come è percepito nei collegi elettorali del Regno e fatto proprio dai deputati in ossequio al principio di rappresentanza.
Una realtà che ci conduce a una successiva considerazione: lo stato confusionale delle istituzioni britanniche non è espressione del distacco delle élite politiche dalla volontà popolare, ma la sua puntuale replica.
La farsa della Brexit si è fatta dramma nazionale, ma non è responsabilità esclusiva di questo governo o di questo parlamento (che pure portano colpe gravissime) ma lo specchio di una divaricazione a più livelli – culturale, socio-economico, ideologica – che divide il paese. Divaricazione profonda, aspra, senza punti di conciliazione. Anche per questo è sorprendente che, fino ad ora, le dimostrazioni pro (rare) e anti Brexit non abbiano generato violenze per le strade, nonostante la spaccatura insanabile, questa sì tribale, fra le due fazioni. Due, in realtà, solo per semplificare: i brexiters sono famiglie articolate che muovono dagli anziani nostalgici dell’impero, a nazionalisti inglesi, a ultraliberisti che sognano Singapore sul Tamigi, a socialisti d’antan che vedono in Bruxelles la quintessenza del capitalismo al potere. I remainers hanno una silhouette un poco più prevedibile, essendo uniti da una fisionomia senza tante sfaccettature: sono (generalmente) più colti, più urbanizzati, più mobili.
È lo scontro fra due mondi a parte non troppo diverso da quello che va in scena nel resto d’Europa fra sovranisti e non, con la differenza essenziale che l’Europa è, all’apparenza almeno, l’unico motivo del contendere fra le due fazioni che sognano prospettive speculari per il regno di Elisabetta.
La contrapposizione, tuttavia, un destino per Londra sembra averlo già tracciato: la fine del bipartitismo nel regno del maggioritario first past the post. La Gran Bretagna dopo cinquant’anni circa di coabitazione europea si è continentalizzata, marciando come mai prima d’ora verso un futuro di coalizioni al potere. L’aritmetica del voto britannico nell’era della Brexit è difficile da calcolare, ma se a guidare la mano dei votanti sarà solo il pensiero, favorevole o contrario, a Bruxelles è presumibile immaginare un’impennata del consenso per i LibDem. Un balzo che gli opinion polls annunciano con tassi di crescita diversi, ma con una costante: i LibDem prenderanno i voti dei remainers, soprattutto di quelli che temono l’arrivo al potere del leader laburista Jeremy Corbyn, portatore di un programma da socialismo anni Settanta capace di spaziare da un massiccio piano di nazionalizzazioni a una politica fiscale dolorosa per imprese e cedi medio alti. La terza forza britannica, quella liberaldemocratica, promette di revocare l’articolo 50 (uscita dalla Ue) qualora conquistasse una maggioranza tale da poter governare da sola, ma si accontenterebbe – crediamo – di fare il junior partner con chiunque garantisse un secondo referendum. Il punto di incontro Liberali-Laburisti promette di essere questo dopo il 12 dicembre. Ovvero una coalizione che porti il paese verso un secondo referendum e mandi a Downing street un premier costretto, per avere la fiducia del parlamento, ad essere molto più moderato di quanto il programma di Corbyn vada ora sbandierando.
È uno scenario possibile del prossimo capitolo sulla Brexit, ma non il più probabile. I sondaggi ci dicono che i Tories di Boris Johnson hanno una decina di punti almeno di vantaggio sul Labour. L’aritmetica pre era Brexit indica che un margine del genere basterebbe ad assicurare una comoda maggioranza a Westminster. Quella post era Brexit indica il contrario. Un margine del genere, contaminato come sarà dal voto trasversale fra le forze in campo, potrebbe non bastare. I conservatori, seppure divisi al loro interno, sono la forza maggiore fra i fautori della separazione da Bruxelles, ma non sono l’unica. Il Brexit party dell’ex leader Ukip Nigel Farage promette di togliere ai Tories il consenso dei brexiters duri e puri, quelli favorevoli allo strappo secco fra Londra e l’Unione. Una spina nel fianco del partito di governo. La partita elettorale si complica ancor di più se si considerano le forze nazionaliste scozzesi, gallesi, nordirlandesi destinate a moltiplicare il proprio consenso. In Scozia il Tory party potrebbe scomparire del tutto, consegnando ai nazionalisti la totalità dei deputati eletti oltre il Vallo. Su tutto pesa la minaccia del cosiddetto voto tattico che i remainers stanno mettendo a punto nei collegi elettorali marginali per orientare il consenso su deputati eurofili (se un LibDem ha più chance di un Laburista, il voto popolare normalmente ascrivibile al Labour sarà diretto, dallo stesso partito, sul candidato LibDem per assicurare l’elezione a Westminster di una voce pro Europa senza disperdere voti).
Uno scenario nel segno del caos, con due sole certezze: se vincerà Boris Johnson, senza necessità del sostegno parlamentare delle forze nordirlandesi, il deal negoziato dal premier a Bruxelles diverrà legge e Londra lascerà l’Unione; se per converso si avrà una maggioranza di forze remainers la via di un nuovo referendum sarà inevitabile.
Scenari opposti, inimmaginabili all’alba del giorno dopo il referendum del 2016, quando Londra scoprì di aver un piede fuori dall’Unione senza capire che per trascinare anche l’altro oltre il confine avrebbe dovuto trasformare del tutto se stessa, attraversando la più grave crisi della sua vita politica contemporanea.