Le riforme economiche* costituiscono il campo in cui il nuovo principe ereditario dell’Arabia Saudita ha dimostrato di avere le mire più ambiziose. "Vision 2030" è infatti soprattutto un piano di sviluppo e diversificazione economica. Ma per poter procedere all’attuazione del pacchetto di riforme la nuova leadership ha prima di tutto dovuto agire sui prezzi internazionali del greggio, per assicurare al paese alte quote di mercato nel lungo termine, un obiettivo che non poteva essere realizzato senza un repentino aumento della produzione e il conseguente crollo dei prezzi, rimasti ben oltre i 100 dollari al barile dal 2008 fino al 2014.
In seguito all’insediamento del padre nel 2014, il giovane Mohammed bin Salman ha proceduto a prendere il controllo dell’industria petrolifera nazionale (la principale fonte delle entrate dello stato), nominando un suo uomo, Khalid al-Falih, al vertice del Ministero dell’Energia, carica che era stata occupata per oltre vent’anni da Ali al-Naimi, storico sostenitore e artefice della stabilità dei prezzi petroliferi internazionali. Un cambio avvenuto soprattutto a causa delle differenze di vedute su alcuni elementi sostanziali delle politiche inaugurate da Mohammed bin Salman e che hanno nell’industria petrolifera e nei prezzi del greggio il loro fulcro principale. Una delle prime politiche messe in atto dopo l’inaugurazione del regno di re Salman è stata infatti una nuova e aggressiva strategia di acquisizione di quote di mercato attraverso un drastico aumento della produzione petrolifera, la quale è arrivata a toccare punte record di 12 milioni di barili al giorno. Quando è stata la lanciata tale politica aveva tre scopi principali.
In primo luogo mettere in difficoltà i nuovi produttori non-OPEC la cui produzione negli anni precedenti era cresciuta a ritmi allarmanti per Riyadh. Il bersaglio principale era costituito dallo shale gas americano che stava ormai portando gli Stati Uniti a diventare il primo produttore mondiale, presto in grado di competere anche al di fuori del proprio mercato interno. L’idea dietro questa mossa era che l’estrazione dello shale fosse cresciuta in modo sostenuto grazie agli alti prezzi petroliferi (ben oltre i 100 dollari al barile) e che la tecnologia shale non fosse più sostenibile in caso di un crollo dei prezzi sotto i 60-80 dollari. Lo stesso valeva anche per le altre crescenti estrazioni non-OPEC come quelle derivanti dalle sabbie bituminose canadesi o dalle trivellazioni di profondità al largo delle coste brasiliane.
Secondo, colpire i principali rivali geopolitici, anch’essi grandi produttori, a cominciare dall’Iran. Teheran infatti dopo la chiusura dell’accordo sul nucleare sembrava apprestarsi a ritornare prepotentemente sul mercato a prezzi concorrenziali. Ma oltre all’Iran c’era anche la Russia, una economia estremamente dipendentemente dalle esportazioni energetiche che dopo l’intervento in Siria si era posta in collisione con la politica estera di Riyadh. Ovviamente tale politica aggressiva di acquisizione di quote di mercato avrebbe avuto anche le sue “vittime collaterali”, inclusi alcuni membri dell’Opec diventati strutturalmente dipendenti dagli alti prezzi del greggio (in primis, il Venezuela).
Infine, il terzo obiettivo, già citato, era quello di posizionarsi nel lungo termine conquistando quante più quote di mercato possibili a discapito dei propri competitori, soprattutto in Asia.
A due anni e mezzo dall’introduzione di questa politica i risultati però rimangono controversi. Il primo problema è che lo shale gas americano è tutt’altro che morto. Dopo una parziale contrazione del 2016, quest’anno appare in grado perfino di aumentare la produzione, rendendo sempre più difficile una ripresa significativa dei prezzi. La semplice politica saudita di aumenti spot della produzione non è infatti bastata; senza un intervento deciso sul mercato dei future da parte saudita lo shale americano ha comunque potuto contare su stabili linee di credito per affrontare il periodo di bassi prezzi. E mentre l’economia saudita ha sofferto deficit da 100 miliardi di dollari difficilmente sostenibili nel lungo periodo, i suoi principali rivali non sembrano affatto eliminabili nel breve periodo e, per quanto non più in un aumento, la produzione non-OPEC non è calata quanto sperato dalla leadership saudita .
Sul piano interno, l’impatto dei prezzi bassi sul settore pubblico è stato particolarmente sentito soprattutto in concomitanza con l’aumento del malcontento causato dall’introduzione a gennaio 2017 di politiche di “austerità”, ovvero tagli significativi agli stipendi e ai bonus nel settore pubblico (dove la maggior parte della popolazione è impiegata), considerati necessari per riportare il bilancio in pari. Per correre ai ripari, anche su pressione di altri membri dell’OPEC in difficoltà a causa dei bassi prezzi, Riyadh ha chiuso a inizio anno un accordo con la Russia per un taglio coordinato della produzione in modo da riportare i prezzi almeno sopra quota 50 dollari al barile. Tale accordo è stato rinnovato a maggio fino alla fine dell’anno e con ogni probabilità verrà prolungato anche al 2018, di fatto segnando una battuta d’arresto della “guerra dei prezzi” lanciata contro i nuovi produttori non-OPEC.
Ma è sul piano delle riforme che le prime incrinature alla politica del nuovo sovrano hanno cominciato ad emergere. Ad aprile la politica proattiva di Mohammed bin Salman ha mostrato infatti il primo segno tangibile di insicurezza, con la marcia indietro e l’annullamento dei tagli agli stipendi. Un annullamento che riporta 13 miliardi di dollari di spese correnti nel budget statale e che di fatto segna la prima frenata significativa del programma di riforme. Secondo alcuni osservatori questa mossa dimostra una aumentata cautela nell’atteggiamento della leadership saudita, che si potrebbe riflettere anche nelle future mosse in campo economico e nell’implementazione delle riforme, soprattutto in campo fiscale, in vista dell’introduzione della tassa sui consumi nel 2018. Tale rinnovata cautela potrebbe comportare in primo luogo una concentrazione dei necessari tagli al budget nel conto capitale (investimenti pubblici e stimoli all’economia) e non, come inizialmente previsto, nel conto corrente (assunzioni, salari e bonus del settore pubblico). Tale sviluppo porterebbe quindi i pacchetti di stimolo e di investimento necessari per la realizzazione di "Vision 2030" a dipendere principalmente sui capitali raccolti dalla vendita del 5% di Aramco, il cui successo è tutt’altro che scontato.
L’economia saudita si trova quindi in un periodo di incertezza, divisa tra una modernizzazione a tappe forzate e l’emergere delle molte contraddizioni che la prolungata dipendenza dalle esportazioni energetiche ha causato all’interno dell’economia nazionale. A causa dei numerosi tagli il tasso di crescita è dato in lieve calo nel 2017 (-0,5%), mentre il segno più dovrebbe tornare negli anni seguenti per quanto permangano forti incertezze sul volume di crescita che la nuova stagione di riforme saprà imprimere.
Eugenio Dacrema, dottorando presso l'Università di Trento e ISPI Associate Research Fellow
* Il presente articolo è estrapolato dal Focus Paese Arabia Saudita del "Focus Mediterraneo allargato n.4, 2017", redatto da ISPI per l’Osservatorio di Politica Internazionale del Parlamento Italiano e del MAECI, di prossima pubblicazione.