Le immagini che sono arrivate in diretta dal Cairo la sera del 9 ottobre ci hanno mostrato un Egitto di nuovo in fiamme. Una manifestazione di protesta della comunità copta nei confronti dell’attuale regime militare per l’incendio di una chiesa nel Sud dell’Egitto, ad Assuan, sarebbe stata la causa del malcontento dei cristiani, che sarebbe poi degenerato negli scontri. Scontri che si sono rivelati i più sanguinosi dalla caduta del regime di Mubarak. Il Cairo si sveglia dunque con l’incubo della lotta settaria al proprio interno, tra la maggioranza musulmana e la minoranza (circa 8 milioni di persone, il 10% dell’intera popolazione) copta. A ben guardare, però, tale descrizione degli eventi è molto superficiale e fuorviante, se non addirittura rispondente a un punto di vista dettato dalla malafede e dalla volontà di presentare uno scenario di islamizzazione del paese. Se è vero, infatti, che la violenza che si è sprigionata nelle piazze della capitale egiziana ha visto come bersaglio la comunità cristiana copta, con almeno 24 vittime negli scontri, è pur vero che non si può ricondurre la condizione di instabilità e sicurezza precaria in cui ancora oggi versa l’Egitto ad una semplice guerra intestina, in cui l’elemento religioso di matrice musulmana prevarica la minoranza cristiana.
I fatti ci narrano di violenti scontri nella capitale tra le forze della giunta militare attualmente al potere e i manifestanti copti, che rivendicano una maggiore attenzione e una risposta governativa più decisa contro gli episodi di intolleranza che continuano ad accadere, seppur sporadicamente, nel paese. È da specificare che tali episodi, allo stesso modo dell’attentato perpetrato contro una chiesa copta ad Alessandria d’Egitto la notte dello scorso Capodanno, non sembrano essere riconducibili a lotte fratricide o ai sintomi di una guerra civile, con i cristiani perseguitati. Sembrano piuttosto le provocazioni di mani esterne alla società, che siano esse legate alla galassia dell’estremismo islamico (quindi non quello della Fratellanza -musulmana, beninteso, ma quello di stampo “qaedista”), o agli stessi ambienti del regime. Il governo, non fornendo adeguate risposte alla richiesta di giustizia da parte dei copti, alimenta il malcontento di questa comunità. A causare la morte dei manifestanti sarebbero state proprio le forze armate. Se la ricostruzione fosse vera, dunque, non si sarebbe trattato né di scontri di natura settaria tra le comunità copta e musulmana, né tantomeno di un atto di estremismo e terrorismo da parte di quest’ultima. Tali considerazioni fanno riflettere su almeno due aspetti della vicenda egiziana.
Come prima considerazione, gli ultimi scontri sembrano dimostrarci che la situazione politica nel paese è tutt’altro che stabile. La reazione del regime alle manifestazioni, seppur queste possano aver assunto un carattere aggressivo, appare spropositata e sintomo di una schizofrenia difficilmente controllabile. Con le elezioni del 28 novembre che si avvicinano, l’attuale giunta militare al potere sicuramente percepisce un senso di insicurezza, derivante dalla possibilità che altre forze politiche diverse da quelle rappresentate dalla giunta (in parte ancora legata al vecchio sistema egiziano, se non altro nelle dinamiche di potere) possano ottenere una maggioranza parlamentare.
In questo quadro, la repressione del dissenso, soprattutto se a discapito di una minoranza religiosa, potrebbe essere funzionale a mantenere alta la tensione nel paese. Tale clima, come già accaduto in passato, potrebbe portare i cristiani a reagire e, in ultima istanza, creare delle fratture tra musulmani e cristiani. La tattica usata dal regime, in questo caso, sarebbe quella di fomentare la rivalità interreligiosa, al fine di mantenere una condizione di insicurezza in cui solo l’attuale giunta potrebbe presentarsi come garante dell’ordine. Si tratta, a grandi linee, della stessa tattica usata da Mubarak negli ultimi anni della sua presidenza. Non sarebbe da escludere, come riportato da alcuni testimoni, che la violenza sia dunque scoppiata in seguito ad alcune provocazioni eterodirette, che avrebbero fornito ai militari il pretesto per intervenire.
La seconda considerazione da fare riguarda proprio la natura stessa delle proteste e il loro obiettivo. L’appartenenza alla minoranza copta, in questo caso, sembrerebbe un fattore contingente delle manifestazioni di dissenso, rivolte invece contro l’incapacità del regime di mettere in atto delle vere riforme e delle politiche conciliatorie a livello sociale ed economico, oltre che politico. In questo senso, sarebbe scorretto presentare gli scontri di alcuni giorni fa come espressione dell’intolleranza e dell’impossibilità di convivenza tra la comunità cristiana e la maggioranza musulmana. Molte testimonianze riportano che, insieme ai manifestanti copti, vi fossero anche molti musulmani, a conferma del fatto che si trattasse soprattutto di una manifestazione anti-governativa, piuttosto che pro-cristiana. Allo stesso tempo, non sembra che ambienti legati alla Fratellanza musulmana abbiano preso parte, direttamente o indirettamente, agli scontri, né alle provocazioni che li hanno causati. Ciò vorrebbe dire che non sono la laicità dell’Egitto o la sua stabilità ad essere messe in discussione (o comunque, non sono gli scontri del 9 ottobre che lo testimonierebbero), bensì la capacità del regime, che ha preso il potere tramite un colpo di stato mascherato da rivolta popolare, di guidare il paese in una transizione democratica. Presentare il panorama egiziano come il nuovo teatro dell’estremismo islamico, a conti fatti, continua a dare legittimità solo e soltanto alla giunta militare, la quale sembra essere difficilmente intenzionata, almeno nel breve termine, a cedere il passo a un pluralismo effettivo nella vita politica egiziana.