Sembrava che il 2020 sarebbe stato un annus horribilis per gli scambi internazional. Invece, nonostante la pandemia, il sistema del commercio internazionale ha retto l’urto, pur con alcune ammaccature. I flussi commerciali globali hanno subito una contrazione di circa il 5%, decisamente minore rispetto a quella osservata durante la crisi finanziaria del 2008-9, e meno peggio di quanto era stato stimato durante la prima ondata di Covid-19 che, a causa degli improvvisi e rigidi lockdowns, aveva portato alla sostanziale paralisi di molte supply chains. Molto male sono andati invece gli investimenti: i flussi di IDE hanno sperimentato un crollo del 40%, ma in un contesto caratterizzato da una incertezza mai vista prima è comprensibile che gli investitori abbiano preferito mantenere un atteggiamento “attendista”.
Con il progressivo miglioramento della situazione sanitaria e con la ripresa economica decisamente in corso in buona parte dell’Occidente, è lecito attendersi una forte ripresa dei flussi globali, sia a livello commerciale che di investimenti. Il rimbalzo verso l’alto è facilitato anche dal fatto che la caduta è stata tutto sommato moderata e nel corso della pandemia l’impiego di politiche commerciali restrittive è stato complessivamente contenuto. Secondo l’UNCTAD, nel 2021 gli scambi internazionali dovrebbero crescere del 16% rispetto all’anno scorso: una crescita trainata soprattutto dal commercio di beni, mentre la domanda di servizi fatica ancora a ripartire. Perché? Gli scambi di servizi spesso richiedono anche lo spostamento delle persone che li erogano o che ne beneficiano, ancora difficile in alcuni Paesi. L’esempio più lampante (come è facile immaginare) è quello del turismo (basti pensare che, nella sola Europa, il 2020 ha visto una riduzione del 74% dei flussi turistici), ma la ridotta mobilità ha avuto un forte impatto anche a livello di commercio internazionale: pensiamo al cosiddetto “mode 4” del commercio di servizi, tipicamente tutte quelle attività di natura professionale che richiedono spostamenti e viaggi internazionali o trasferimenti cross-border tra filiali di una azienda multinazionale.
Supply chains sempre più stressate: la fine della globalizzazione?
Sebbene i dati sul commercio internazionale siano nel complesso abbastanza rassicuranti, non mancano sui mercato globali le fonti di tensione: aziende sempre più avide di terre rare, container per il trasporto marittimo sempre più scarsi e dunque cari (con il prezzo dei noli dall’Asia salito di oltre il 500%), una domanda di beni di consumo (soprattutto elettronici e hi-tech) sempre più elevata, inflazione a cifre che non si vedevano da diversi anni, il tutto condito da tensioni di natura geopolitica tra le principali potenze. Ci potrebbero essere tutti gli elementi per una tempesta perfetta che metterebbe in seria crisi il paradigma della globalizzazione, ma il sistema economico sta complessivamente reggendo. Che cosa sta succedendo veramente? C’è da preoccuparsi?
Parte tutto dalla Cina e dai Paesi che da essa dipendono maggiormente, come Vietnam, Indonesia e Malaysia. L’insorgenza di nuovi casi di Covid, gli alti costi delle materie prime, i colli di bottiglia tuttora presenti al livello delle supply chains sono i fattori alla base del rallentamento della produzione industriale che si sta verificando in Asia negli ultimi mesi. I rischi di trasmissione di questo ingolfamento verso Europa e Stati Uniti sono concreti e in particolare rappresentati dalla crescente carenza di semiconduttori, sempre più richiesti dalle industrie manifatturiere che dipendono in maniera crescente dalle applicazioni digitali. Grandi case automobilistiche, del calibro di Toyota e Volkswagen, sono già state costrette a tagliare la produzione di veicoli, ma la pressione si sta ripercuotendo anche su altri settori di beni di consumo e potrebbe raggiungere un picco nel periodo natalizio, causando problemi di approvvigionamento.
In realtà, il Covid non è la causa primaria di questa situazione, ma si può dire che stanno ora venendo al pettine i nodi di una dinamica internazionale che la pandemia non ha fatto altro che accelerare e amplificare. La ripresa a ritmi elevati degli scambi commerciali dopo alcuni mesi di sostanziale paralisi ha contribuito a creare un mismatch tra domanda (in forte ripresa) e offerta (che ovviamente è meno elastica e fa più fatica ad adattarsi). Si tratta dunque di problematiche di natura strutturale e preesistenti alla pandemia, che potranno essere risolte con una normalizzazione della domanda ma soprattutto con adeguamenti dal lato dell’offerta, soprattutto nei settori della logistica e della dotazione infrastrutturale. I benefici legati alle global supply chains e all’organizzazione internazionale della produzione sono risultati molto evidenti negli scorsi anni, ma la crisi legata alla pandemia ha messo in evidenza anche alcune fragilità che devono essere risolte per assicurare efficienti approvvigionamenti attraverso questi canali. La crisi ha quindi aperto le porte non certo a una eliminazione o riduzione delle global supply chains, ma a una loro parziale ristrutturazione e riorganizzazione per renderle più sicure ed efficienti. Questi cambiamenti potrebbero creare altri “colli di bottiglia” in un orizzonte di breve-medio periodo.
Vecchie e nuove rivalità minacciano di nuovo il multilateralismo?
Che il sistema multilaterale sia in crisi da anni, non è una novità. L’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) si trovava in una situazione di stallo da diverso tempo, soprattutto per il mancato rinnovo del Trade Appellate Body, l’organo di risoluzione delle controversie sul quale gli Stati Uniti di Donald Trump avevano posto il veto. La nomina della nigeriana Ngozi Okonjo-Iweala come nuovo Direttore Generale a febbraio 2021, insieme alla vittoria di Joe Biden negli USA, avevano suscitato grandi aspettative per un cambio di passo che avrebbe potuto riportare l’OMC al centro della scena. In realtà, al momento è più prudente adottare un atteggiamento pragmatico e realista che tenga conto della complessa situazione internazionale dominata da tensioni geopolitiche che vanno da Est a Ovest. Le relazioni tra Washington e Pechino restano infatti particolarmente tese e il prossimo terreno di scontro – a livello strategico come economico – potrebbe essere la regione dell’Asia-Pacifico, come evidenziato dal recente accordo “AUKUS” tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti, ma anche dalla volontà di Pechino di aderire al Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), proprio quell’area di libero scambio della regione che era stata originariamente promossa da Barack Obama in chiave di contenimento anti-cinese nella regione del Pacifico.
In mezzo al difficile rapporto tra Cina e USA, l’Unione Europea rischia quantomeno di restare indietro: il concetto di “autonomia strategica aperta” contiene anche un pilastro di politica commerciale, ma nonostante i recenti annunci di Ursula von der Leyen per rafforzare la capacità industriale dell’UE in alcune industrie chiave come quella dei semi-conduttori, al momento le politiche di Bruxelles devono fare i conti con Stati che si muovono ancora troppo in ordine sparso.
È sulla base di questo contesto piuttosto intricato che ci si prepara alla Dodicesima Conferenza Ministeriale dell’OMC, prevista per l’anno scorso a Nursultan (Kazakhstan) e poi rimandata per Covid a dicembre 2021 nella sede dell’organizzazione a Ginevra. L’appuntamento, in programma a inizio dicembre, è importante per cercare di fare progressi su temi politicamente sensibili quali i sussidi alla pesca, ma anche su questioni “nuove” come la sostenibilità ambientale negli scambi commerciali e il commercio elettronico. Il G20 a presidenza italiana sta cercando di preparare il terreno in vista della Conferenza, e la riunione dei Ministri del Commercio in programma l’11-12 ottobre a Sorrento sarà un test importante per valutare se ci potrà essere una convergenza politica su alcuni obiettivi fondamentali andando oltre ad una semplice e “rituale” enunciazione – carente però di contenuti - del sostegno al libero commercio e al sistema multilaterale.
Commercio digitale e “verde”, quali prospettive?
La pandemia ha contribuito ad accelerare un trend già in forte crescita, quello dell’e-commerce, che ha un ruolo crescente anche negli scambi internazionali. Il commercio elettronico ha aperto la porta a grandi opportunità, ampliando le scelte disponibili ai consumatori e consentendo ai produttori di espandere (almeno sulla carta) i loro mercati di riferimento. La velocità dell’evoluzione di questo mercato ha però lasciato diversi problemi e questioni da risolvere a livello normativo e regolamentare, auspicabilmente a livello multilaterale. Attualmente, l’OMC sta portando avanti sotto la guida di Australia, Giappone e Singapore un’iniziativa che vede la partecipazione di 86 Stati membri volta alla sottoscrizione di una dichiarazione comune (si spera in tempo per la MC12) per disciplinare alcuni aspetti dell’e-commerce, soprattutto con riferimento alla tutela dei dati dei consumatori e al tema dell’open government. Ma ci sono altre questioni, legate soprattutto alla regolamentazione dei marketplaces e più in generale del mercato digitale, per consentire un’equa partecipazione e accesso anche alle Piccole e Medie Imprese, dato che tale spazio è ad oggi fortemente dominato da grandi imprese multinazionali.
Sarà invece probabilmente più difficile trovare una convergenza, almeno nel breve periodo, sulle questioni che vedono incrociarsi il commercio internazionale con la transizione ecologica e il cambiamento climatico. I principali attori internazionali (USA, EU, Cina) si stanno muovendo in ordine sparso sul tema relativo alla possibile introduzione di un meccanismo di aggiustamento del carbonio alla frontiera, che si configurerebbe in sostanza come una tassa sull’importazione di beni considerati maggiormente inquinanti. L’OMC dovrebbe entrare nel dibattito cercando quantomeno di favorire una discussione inclusiva, dato che la questione sarà molto divisiva nei prossimi anni. Non è la prima volta che la richiesta di applicare al commercio internazionale misure di tutela di alcuni gruppi o categorie viene respinta perché inevitabilmente alza le barriere agli scambi internazionali ed è vista come una forma celata di protezionismo, particolarmente insidioso dato che questi ostacoli sono tipicamente più difficili da superare per i Paesi emergenti e in via di sviluppo. Anche nel caso di tasse sui prodotti più inquinanti, è facile aspettarsi che l’adozione di simili meccanismi verrà additata dai Paesi in via di sviluppo come una misura protezionistica da parte dei Paesi più ricchi mascherata dalla finalità della lotta al cambiamento climatico.
Un mare agitato
Sono dunque numerosi gli elementi per prevedere che nel prossimo futuro le tensioni commerciali a livello globale potrebbero aumentare anziché diminuire. Una rinnovata efficacia dell’OMC sarebbe pertanto fondamentale per poter gestire contrasti a livello bilaterale, o plurilaterale, all’interno di un quadro di principi e regole comuni. Al contempo, tuttavia, l’organizzazione ginevrina dovrà dotarsi di strumenti nuovi per poter accompagnare i macro-trend che cambieranno radicalmente l’economia globale nei prossimi decenni. La globalizzazione come la conosciamo sta attraversando un mare in tempesta: le possibilità per superarlo ci sono, ma servirà lungimiranza e pragmatismo da parte di tutti, riconoscendo che l’attuale interdipendenza economica dovrebbe essere il principio di fondo per cercare di contenere e “normalizzare” le dispute internazionali in atto.