I capi di stato e di governo riuniti (virtualmente) nel Consiglio europeo hanno subito approvato le misure su cui i loro ministri delle Finanze avevano già trovato un accordo. Via libera dunque al pacchetto fino a 540 miliardi di euro con nuovi prestiti per le imprese da parte della BEI, con il Sure da 100 miliardi per integrare le casse integrazioni dei paesi membri e con anche il Fondo salva-stati (Mes) per le spese sanitarie. Tutto scontato e tutto secondo le previsioni. Se non ci saranno ulteriori intralci queste tre misure saranno operative entro inizio giugno. Non male per un’Unione in cronica lentezza. Ma il vero piatto forte del Consiglio – per alcuni piuttosto indigesto - era il Recovery Fund. L’accordo c’è stato: il fondo ci sarà. Ma cosa sarà? Prima di addentrarci sul punto è opportuno capire perché è così necessario.
Perché BEI, Mes e Sure non bastano
Due settimane fa i ministri delle Finanze si erano trovati d’accordo solo nel dire che di Recovery Fund se ne sarebbe parlato più avanti in occasione del prossimo Consiglio. Questa era già stata una concessione strappata in extremis ai paesi del Nord, a partire da Germania e Olanda, da sempre contrari a qualsiasi forma di mutualizzazione dei debiti. In queste ultime settimane però i timori sulle conseguenze del lockdown sull’economia e sull’occupazione hanno preso maggior forma attraverso i drammatici dati forniti, tra gli altri, da FMI e dalla BCE. Dati che mostrano peraltro quanto una crisi simmetrica (l’emergenza COVID-19) possa avere conseguenze disuguali. Per quanto ingente, infatti, il calo del Pil nei paesi del Nord sarà inferiore rispetto a quello dei paesi del Sud. Il divario tra Nord e Sud aumenterà, e lo farà ancora di più in termini di disoccupazione. Un gap che rischia di diventare socialmente e politicamente insopportabile se non si trovano ingenti risorse di sostegno all’economia e all’occupazione.
Inizia inoltre a delinearsi con maggiore chiarezza l’enorme impatto del lockdown in termini di indebitamento su tutti i paesi membri, ancora volta maggiore (di molto) per quelli del Sud. Sull’impennata dell’indebitamento poco potrà fare il pacchetto di misure già approvato. Anzi sia il Sure che il Mes opereranno concedendo prestiti ai paesi e ne faranno quindi lievitare il debito pubblico (anche se meno rispetto al reperimento delle stesse risorse sui mercati).
Di fronte a queste previsioni, è via via stato più chiaro a tutti che a repentaglio non c’era solo la stabilità finanziaria di questo o quel paese ma dell’intera Eurozona. Gli effetti di questo rischio in termini di spread si sono già fatti sentire, ma sono stati finora piuttosto contenuti. A frenare il nervosismo dei mercati è stata la BCE. Con le sue ultime misure - a partire dal programma di acquisto dei titoli (Pepp) e con una potenza di fuoco di oltre 1.000 miliardi - sta guadagnando tempo prezioso. Purtroppo però anche l’intervento della BCE ha i suoi limiti e i suoi punti interrogativi. Primo: fino a quando potrà comprare titoli? Al ritmo dei recenti acquisti di titoli pubblici e privati la sua potenza di fuoco potrebbe esaurirsi già entro ottobre. Un limite superabile solo aumentando ancora il Pepp e posticipandone la chiusura ben oltre fine anno. Secondo: qual è la qualità dei titoli acquistabili? Le principali agenzie di rating potrebbero declassare il debito dei paesi del Sud dell’Eurozona (Italia inclusa) fino a rendere impossibile l’acquisto dei relativi titoli da parte della BCE in quanto junk bonds. In questo caso la BCE ha giocato d’anticipo concedendo un ‘waiver’ speciale alla Grecia già lo scorso 7 aprile e aprendo alla possibilità di acquistare junk bonds da altri paesi. Ancora più complicato è però il terzo quesito: da chi può acquistare titoli? Già oggi la BCE sta derogando alla capital key che gli imporrebbe di acquistare da ogni paese una percentuale di titoli non superiore alla quota che il paese detiene nel capitale della banca stessa (13,8% per l’Italia). Una deroga che però non può essere a tempo indeterminato perché le regole europee lo vietano. L’eccesso di acquisti di titoli da un paese dovrebbe essere compensato da un maggiore acquisti di titoli dagli altri paesi in un momento successivo. La Corte di Giustizia europea o, a livello nazionale, anche una alta Corte (non ultima la Corte costituzionale tedesca) potrebbero bloccare l’intervento della BCE ritenendolo (invero con qualche ragione) un salvataggio di uno o più paesi membri (cosa proibita dai Trattati). Insomma, come da tempo va ripetendo la stessa Presidente Lagarde, la BCE fa la sua parte ma non può fare tutto da sola. È necessario ricorrere anche a forti strumenti comuni di stimolo fiscale. Strumenti che però non pesino (troppo) sul già altissimo indebitamento dei paesi. Insomma, gli stati, soprattutto quelli del Sud, non possono trovarsi intrappolati in un drammatico dilemma: evitare una crisi finanziaria spendendo di meno, o rilanciare l’economia e il lavoro ma mettendo a rischio la sostenibilità del proprio debito. Da qui l’esigenza del Recovery Fund.
Il Recovery Fund: ci sarà, ma cosa sarà?
Dopo quattro ore di Consiglio (virtuale), l’accordo unanime sul Recovery Fund alla fine c’è stato. Il risultato già di per sé è positivo se si pensa che solo qualche settimana fa alcuni paesi non ne volevano proprio sentir parlare. Come largamente atteso, è stato dato mandato alla Commissione di elaborare una proposta entro il 6 maggio. D’altra parte, sono necessari più tempo e più sforzi per delineare i dettagli tecnici. Che poi tutto sono tranne che ‘dettagli’. Si tratta di almeno tre grossi nodi che la presidente von der Leyen proverà a sciogliere nelle prossime settimane.
Anzitutto quello dell’ammontare complessivo del Fondo. Alcuni leader si sono spinti a dire che non si tratterà solo di miliardi, ma di migliaia di miliardi, senza però fornire ulteriori chiarimenti. Ma dove verranno trovati questi soldi? La cosa certa è che verrà usato il bilancio pluriennale comunitario da approvare per il periodo 2021-2027. L’ostacolo da superare subito riguarda l’entità del bilancio Ue (poco più dell’1% del Pil), in quanto palesemente insufficiente rispetto alle ambizioni del Recovery Fund. Una prima apertura da parte della Germania c’è già stata: i versamenti degli stati potrebbero addirittura raddoppiare, quanto meno per alcuni anni. Non è chiaro però se l’aumento sarà uguale per tutti i paesi. Sarà appunto la Commissione a chiarire questi ‘dettagli’ e i paesi ‘frugali’ (a partire dall’Olanda) sono pronti a dar battaglia. L’idea è quella di poter usare il (più consistente) bilancio Ue quale garanzia per una emissione comune di titoli tripla A (su cui quindi pagare un basso tasso di interesse). Insomma, li si chiami come si vuole ma si tratterebbe di eurobond attivati attraverso un meccanismo simile a quello che verrà usato anche per il Sure. Non è chiaro poi come verranno ripagati i titoli in scadenza; una parte potrebbe venire da nuove risorse proprie della Commissione (ad esempio tramite imposte comuni su attività inquinanti), mentre un’altra parte potrebbe essere pagata dai paesi sulla base di quanto avranno ricevuto.
E arriviamo così al secondo nodo da sciogliere: a chi verranno destinati questi soldi e come? Come richiamato sopra, una crisi simmetrica come quella del coronavirus sta avendo un impatto diseguale su crescita e occupazione. È quindi lecito aspettarsi che la ripartizione dei soldi reperiti dal Fondo sia anch’essa diseguale. Una proposta avanzata nei giorni scorsi da Madrid prevede una ripartizione legata alla contrazione del Pil e all’aumento del tasso di disoccupazione. In altri termini, ai paesi più colpiti dalla crisi andrebbero più soldi. Sì, ma in quale forma e per fare cosa? Se si trattasse di prestiti, ci ritroveremmo con lo stesso problema di Mes e Sure: l’aumento del rapporto debito/Pil dei paesi membri. Si potrebbe quindi trattare (almeno in parte) di sovvenzioni da parte della Commissione Ue anche al fine di finanziare progetti coerenti con le priorità già annunciate dalla presidente von der Leyen all’inizio del proprio mandato. È l’ipotesi di gran lunga preferita dai paesi del Sud ma invisa a quelli del Nord che lamentano peraltro (non senza ragioni) precedenti non proprio lusinghieri sull’utilizzo dei fondi comunitari da parte di alcuni paesi membri (Italia inclusa).
Infine, il terzo e ultimo nodo: la tempistica. Per utilizzare il bilancio Ue 2021-2027 questo deve essere approvato in fretta. E anche se così fosse, potrebbe essere utilizzato solo a partire dal prossimo anno. I paesi del Sud hanno invece insistito nel sottolineare l’assoluta urgenza del fondo auspicandone l’attivazione nella seconda metà di quest’anno. Bisognerà quindi trovare un escamotage per utilizzare prima (almeno in parte) risorse comuni destinate al periodo 2021-2027.
Insomma il Recovery Fund c’è e questa è già una buona notizia. Ma il percorso verso la sua attivazione è ancora segnato non da semplici ‘dettagli’ ma da enormi nodi da sciogliere. È quindi opportuno sospendere il giudizio e trattenere il fiato. Almeno fino al prossimo 6 maggio che rappresenterà una tappa cruciale, ma non quella di arrivo.