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POLITICHE MONETARIE

Banche centrali: coordinamento globale cercasi

Franco Bruni
14 ottobre 2022

Il Sistema internazionale dei cambi è sotto stress. Dalla fine del 2020 l’euro si è svalutato rispetto al dollaro del 21% e lo yen del 30%, in entrambi i casi con due terzi della svalutazione avvenuta quest’anno. La svalutazione della sterlina è come quella dell’euro ma è avvenuta quasi tutta quest’anno. Quella del franco svizzero è attorno al 10%, 8% quest’anno. Quest’anno è sceso del 9% anche il renmimbi cinese. Sono svalutazioni di libero mercato, salvo Giappone e Cina che intervengono molto per influenzare il cambio.

 

Politiche monetarie diverse

La ragione principale dello stress è il divario fra le politiche monetarie. L’aumento dell’inflazione è un problema comune, anche se l’aumento dei prezzi è per ora più lento in Svizzera, Cina e Giappone. Ma le banche centrali la combattono con rialzi diversi dei tassi di interesse e, soprattutto, con un atteggiamento strategico diverso. Rispetto all’inizio dell’anno scorso, i tassi sui mercati monetari a tre mesi sono 375 punti più alti per il dollaro, 340 per la sterlina, 180 per l’euro, 30 punti più bassi per il renmimbi, quasi invariati per lo yen e il franco svizzero. Solo la FED spicca per una decisione molto forte di continuare a stringere la moneta fino a quando l’inflazione non scende. La sterlina sconta problemi nazionali nonostante i tassi elevati. D’altra parte, anche nel caso degli USA il livello dei tassi di interesse sta solo ora diventando “normale”, perché dappertutto (salvo in Cina), fino a due anni fa e per diversi anni prima i tassi a breve erano stati nulli o negativi.

Siamo dunque in un periodo di normalizzazione delle politiche monetarie che era da tempo prevedibile ed è ora stimolato dall’inflazione, che si alimenta anche alla grande liquidità creata negli anni “anormali”. Ma la normalizzazione avviene con ritmi diversi, diversa convinzione e diverse strategie, anche perché sono in parte diverse le congiunture macroeconomiche. Il mercato dei cambi registra queste differenze e le amplifica a volte con la speculazione. Se le normalizzazioni avvenissero in modo più chiaramente coordinato potrebbero essere meno destabilizzanti e, nello stesso tempo, più efficaci.

 

Una normalizzazione coordinata

“La cooperazione internazionale serve a superare i problemi che rendono la normalizzazione della politica monetaria un’operazione difficile, che può mettere a rischio la stabilità finanziaria. Solo un coordinamento trasparente può convincere i mercati che ogni Paese ha il suo piano di normalizzazione da seguire, per lui appropriato e non dannoso per gli altri”. Lo scrivevamo, con José Siaba Serrate e Antonio Villafranca, nel 2018, in un contributo al G20 argentino, proponendo anche una modalità di coordinamento che chiamavamo Global Monetary Policy Coordination Meetings disegnati sviluppando l’esperienza dei tentativi  di coordinamento formale che il Fondo Monetario Internazionale fece molti anni prima di fronte a un diverso tipo di disequilibri globali. Con altri coautori abbiamo ripetuto e sviluppato la proposta anche nei due anni seguenti, nei lavori del T20 di Tokyo e di Riad.

Se c’era la possibilità di fare qualcosa del genere, il sopravvenire della pandemia e poi, addirittura, della guerra e dello shock ai prezzi dell’energia, ha reso la collaborazione internazionale ancora più preziosa ma più difficile. Di fatto, gli USA stanno normalizzando con un atteggiamento coraggioso ma che qualcuno potrebbe considerare disattento alle strategie degli altri.

L’opportunità del coordinamento internazionale delle politiche monetarie è stata spesso messa in dubbio in sede accademica ma, in un limpido contributo del 2013, John B Taylor ha mostrato come coordinarsi sia essenziale quando le politiche dei singoli Paesi non seguono da vicino regole chiare e condivise e dunque il tâtonnement col quale cercherebbero di normalizzare senza coordinamento può vederle confliggere, esitare, fallire. Passare da tassi nulli o negativi a tassi più normali, indovinare e precedere il percorso di riduzione dell’inflazione, sgonfiare i bilanci enormemente ampliati da varie forme di quantitative easing, assicurare la liquidità delle banche mentre se ne riassorbe l’eccedenza nel sistema, riassestare le relazioni fra banche centrali e governi rendendo meno automatico il finanziamento dei disavanzi pubblici: è un lavoro molto difficile che riesce molto meglio con un coordinamento fra i Paesi che, come proponevamo al G20, non deve restare segreto nei rapporti riservati dei banchieri centrali, ma deve in gran parte essere annunciato con trasparenza ai mercati che ne terranno conto mentre reagiscono alle mosse delle politiche nazionali.

Se le politiche monetarie sono ben coordinate, il loro effetto rimbalza bene da un Paese all’altro e basta muoverle meno per ottenere il risultato desiderato sull’inflazione, senza destabilizzare i cambi. Non è dunque corretto quello che a volte si sente dire: con tutti che fanno politiche monetarie restrittive si precipita in recessione. Questo succede se ci si rincorre senza coordinarsi, finendo per stringere tutti troppo. Ed è essenziale che, oltre alle politiche monetarie, anche i bilanci pubblici coordinino in qualche misura le loro mosse. L’ampiezza dei deficit accresce i tassi di interesse per ogni grado di stretta monetaria e questa accresce i deficit, tramite l’aumento degli oneri di interesse, per ogni grado di espansione fiscale. Va evitato che le politiche monetarie e fiscali collidano fra loro e l’aumento dei tassi necessario per fermare l’inflazione venga esasperato da deficit pubblici eccessivi: come sta succedendo nel Regno Unito, con serie conseguenze anche sulla stabilità politica, e rischia di succedere negli USA.

 

Un nuovo Plaza?

Qualcuno suggerisce, visto che è il dollaro il problema per tutti, di forzare la moneta USA al ribasso con un accordo internazionale, una sorta di nuovo Plaza Accord, che nel 1985 avviò la svalutazione del dollaro troppo forte. In effetti la svalutazione fu rapida e ingente, al punto che due anni dopo fu necessario un accordo rovesciato, il Louvre Accord, per fermarla. Il ricordo di quegli anni è suggestivo perché l’estrema forza del dollaro rifletteva anche allora una politica monetaria americana restrittiva, da quando, all’inizio degli anni ’80, Paul Volcker aveva stroncato l’inflazione e la politica di bilancio molto espansiva di Reagan.

Vi sono però grandi differenze dall’oggi, che rendono l’analogia inappropriata. Innanzitutto, l’inflazione, che oggi è l’obiettivo della stretta monetaria che sostiene il dollaro mentre allora era già molto diminuita, con la stretta iniziata dalla FED ben cinque anni e mezzo prima: fu del 3,5% nel 1985 e di meno del 2 nell’86. Una seconda importante differenza è che per il dollaro forte, che causava la perdita di competitività dell’industria americana, ci fu allora negli USA una protesta e una lobby che senza una svalutazione avrebbe ottenuto l’adozione di dazi protettivi. In terzo luogo, i tedeschi di allora erano più disposti degli europei di oggi a vedere rivalutare molto il loro cambio. Quarto: i cambi di allora si potevano manipolare più facilmente con interventi sui mercati valutari: il Giappone, e soprattutto la Germania, vendettero o minacciarono di vendere tanti dollari acquistando le loro monete. Infine, i tassi di interesse poterono scendere sia in USA che in Germania, cosa oggi improponibile.

 

Il mondo e la FED

È vero però che, anche in seguito alle riunioni del FMI a Washington di questa settimana, potrebbe nascere l’occasione di esplorare le vie di un coordinamento della normalizzazione delle politiche monetarie, lanciando un segnale che i mercati tradurrebbero anche in una migliore stabilità dei cambi. Non è però il caso di sprecare l’occasione limitandosi, come alcuni vorrebbero, a far pressioni sulla FED perché rallenti la crescita dei suoi saggi di interesse. La banca centrale statunitense è molto decisa a rimediare la perdita di credibilità che ha sofferto arrivando in ritardo nel fermare un’inflazione che considerava erroneamente di breve durata. A volte sembra che pensi di combatterla anche per conto del resto del mondo. Probabilmente continuerà a farlo anche se la crescita USA rallentasse molto.

Inoltre, non va cercato un mero rimedio occasionale all’attuale tensione dei cambi, che possiamo invece sfruttare per migliorare la governance di una globalizzazione finanziaria che non sembra recedere e alla quale non corrisponde sufficiente collaborazione. Per normalizzare meno, se così si può dire, devono normalizzare tutti, con chiarezza di intenti e lungimiranza. Quello che manca è la coerenza delle strategie di tutte le principali banche centrali nell’affrontare un’inflazione che, anche se ha intensità al momento un poco diverse in alcuni Paesi, è senz’altro un fenomeno mondiale, trascinato dal cosiddetto “ciclo finanziario globale”.

Con un atteggiamento collaborativo si può anche affrontare insieme una delle conseguenze gravi del rialzo dei tassi e del cambio del dollaro: l’onere aggiuntivo dei Paesi meno sviluppati ed emergenti che sono molto indebitati in dollari e dai quali i capitali stanno uscendo rapidamente per approfittare dei rendimenti crescenti offerti altrove.

 

La moneta rifugio

Detto tutto ciò, non si può negare che l’attuale rialzo del dollaro può considerarsi anche maggiore di quello spiegabile con le differenze fra le politiche monetarie e i tassi di interesse. Un’altra importante ragione della sua forza sta nel fatto che da tempo esso è considerato la migliore “moneta rifugio”. Quando nella situazione internazionale si addensano più forti incertezze economiche e politiche, gli investitori evitano di sfruttare occasioni che in giro per il mondo, con impieghi denominati in diverse valute, appaiono profittevoli ma rischiose: cercano invece di stare sul dollaro, sulla moneta il cui possesso garantisce un’amplissima gamma di utilizzi, con un mercato finanziario vasto e ricco di strumenti per trovare il giusto misto di rischio e rendimento. Così che le fluttuazioni del dollaro negli anni lo hanno visto spesso rafforzarsi nei momenti di incertezza globale e disturbi geopolitici, anche quando derivano proprio dagli USA. Ciò significa anche che, quando l’attuale situazione di forte tensione geopolitica migliorerà, potremo attenderci un dollaro meno forte di come lo farebbero le differenze fra le politiche monetarie. 

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AUTORI

Franco Bruni
Vice-Presidente ISPI

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