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CAMBIAMENTO CLIMATICO

COP27: la sfida del Global South

Stefano Salomoni
04 novembre 2022

Dopo l'appuntamento chiave di Glasgow dell'anno scorso, da domenica 6 novembre i riflettori saranno puntati sull'Efgitto: a Sharm-el-Sheikh sta infatti per cominciare la XXVII edizione della Conferenza delle Parti sul Cambiamento Climatico (COP27) della UNFCCC. Bisognerà cercare di dare seguito agli impegni presi l'anno scorso, e di non divergere dalla traiettoria disegnata alla XXI COP, nel 2015 A Parigi, dicembre 2015). In quell'occasione, 195 Paesi adottarono l’Accordo di Parigi, il primo accordo universale e giuridicamente vincolante sul clima mondiale.

L’obiettivo principale dell’Accordo è quello di contenere l’aumento del riscaldamento globale entro i 2°C rispetto ai livelli preindustriali, e proseguire gli sforzi per un ulteriore abbassamento della soglia a 1,5°C. L’accordo prevede inoltre specifici impegni di riduzione delle emissioni climalteranti partendo dagli impegni presi dai singoli Paesi contraenti (Contributi Determinati Nazionalmente o NDCs-Nationally Determined Contributions). Questo segna un cambio di paradigma rispetto al precedente accordo climatico, il Protocollo di Kyoto, passando da un approccio top-down, basato su target vincolanti suddivisi tra la Parti dell’accordo (burden sharing), a uno bottom-up basato sulla volontà dei singoli contraenti. La ratio di questo cambiamento è che nell’attuale contesto climatico, dove i danni dell’inazione sono diffusi e differiti nel tempo mentre i costi dell’azione sono concentrati e immediati, e internazionale, assenza di un organo con potere statuale o semi-statuale, l’unico modo per affrontare il problema delle emissioni climalteranti è quello della libera scelta da parte di ogni entità statale, lasciando poi alla dinamica reputazionale fare da deterrente. A Parigi sembra che la scelta abbia avuto successo. Più difficile è però realizzare poi per davvero quanto si promette.

 

Tra mitigazione e adattamento

La lotta al cambiamento climatico, così come si è incarnata nell’accordo di Parigi, si è sostanziata fondamentalmente in due punti: mitigazione e adattamento. Per “mitigazione” si intendono gli interventi umani mirati a ridurre la produzione o incrementare l’assorbimento di gas serra, quali per esempio l’accrescimento dell’utilizzo di fonti rinnovabili, azioni per l’efficientamento energetico o la riforestazione per l’assorbimento delle emissioni.  Con “adattamento” invece si fa riferimento ad aggiustamenti promossi dall’uomo nei sistemi ecologici, sociali o economici in risposta a stimoli climatici reali o previsti e ai loro impatti. Sempre a Parigi, oltre a questi due piani di azione, si sono definite poi le modalità per raggiungere questi obiettivi: trasparenza, per monitorare i progressi e le azioni portate avanti per raggiungere gli obiettivi definiti; trasferimenti tecnologici e capacity building per la diffusione dei mezzi per combattere il cambiamento climatico; e la finanza per il clima, cioè la mobilitazione delle risorse a supporto dell’azione climatica, da dividersi tra azioni di mitigazione e adattamento, che di fatto si traduce in un supporto finanziario dei Paesi avanzati verso le economie più vulnerabili in applicazione del principio delle "responsabilità comuni ma differenziate".

Rifacendosi all’aurea regola di “seguire il denaro”, è proprio focalizzandosi su quest’ultima che si può fare una prima valutazione su quanto alle promesse stiano seguendo i fatti. E questo non solo perché sia facile e immediato verificare lo scarto tra promesse e realtà. Ma perché è proprio in questa interazione tra mondo sviluppato e Global South che si giocherà la reale possibilità di contenere la portata e gli effetti del cambiamento climatico. Questo perché l’ingaggio del Global South, considerato il suo crescente peso relativo in termini di popolazione, economia, ed emissioni, fa sì che, se anche queste regioni seguissero un percorso di sviluppo simile a quello del mondo sviluppato, ogni possibilità di contenere il degrado climatico e ambientale verrebbe preclusa.

 

Impegni finanziari disattesi

Se vogliamo parlare di finanza per il clima, il primo riferimento da utilizzare è l’obiettivo posto durante la COP15 di Copenaghen nel 2009 di raggiungere entro il 2020 una mobilitazione di 100 miliardi di dollari l’anno, da conteggiarsi tra risorse pubbliche elargite sotto forma di finanziamenti, sia su base bilaterale che multilaterale, crediti di esportazione e risorse private. Risorse che avrebbero dovuto essere addizionali, e non sostitutive rispetto ai preesistenti fondi alla cooperazione allo sviluppo. Tale obiettivo è stato poi ribadito a Parigi nel 2015, quando ne è stata estesa la durata temporale sino al 2025, anno in cui si dovranno presentare nuovi target da raggiungere.

La realtà dei fatti è però molto diversa rispetto ai proclami fatti. In un report pubblicato nel luglio del 2022 la stessa OCSE, quindi il club dei Paesi sviluppati donatori, ha attestato che le risorse mobilitate nel 2020 sono state in realtà molto più basse, di poco sopra gli 80 miliardi di dollari. Quindi ben 1/5 al di sotto degli obiettivi proclamati con grande enfasi. Obiettivi che sempre l’OCSE stima verranno raggiunti solo nel 2023. Inoltre, la maggior parte di questi fondi (oltre il 70%) sono elargiti sotto forma di prestiti piuttosto che sovvenzioni, andando così ad aggravare una situazione debitoria già molto severa nel caso di molti recettori.

Se ciò non bastasse, vi è infine un importante sbilanciamento di questi fondi a favore di interventi mirati alla mitigazione (2/3 del totale circa) delle cause del cambiamento climatico rispetto all’adattamento alle sue conseguenze. Benché da un punto di visto logico questo possa apparire perfettamente razionale e corretto (è più importante “curare” le cause di un male piuttosto che i suoi effetti), se ci mettiamo nei panni dei Paesi del Global South, che sono responsabili di una minima parte delle emissioni, soprattutto se le vediamo sotto forma di emissioni pro-capite o in una prospettiva storica, e  al contempo sono i Paesi maggiormente colpiti dalle conseguenze del cambiamento climatico, questa suddivisione dei fondi pare pensata per trascurare le loro reali esigenze.

 

Loss and damage: come compensare i Paesi più vulnerabili?

Se ci soffermiamo sui danni, si apre poi tutto un altro capitolo che viene solitamente raggruppato sotto l’etichetta “loss and damage”, perdite e danni. Benché formalmente non vi sia una definizione universalmente accettata di cosa si intenda per “loss and damage”, in gergo climatico con tale etichetta si vogliono indicare tutti gli impatti residuali del cambiamento climatico. Cioè ai potenziali impatti negativi, legati principalmente a eventi estremi, come siccità, ondate di calore, cicloni tropicali e alluvioni, e ai cosiddetti eventi “a lenta insorgenza” (slow onset events), tra cui l’innalzamento del livello del mare, l’acidificazione degli oceani, l’aumento delle temperature, la desertificazione, la perdita di biodiversità, la degradazione delle foreste e del suolo, il ritiro dei ghiacciai e relativi impatti e i fenomeni di salinizzazione, che si materializzano dopo che siano state messe in atto tutte le possibili misure di mitigazione e adattamento.

Se andiamo alla sostanza delle cose, questo fa riferimento a come per molti Paesi del Global South il cambiamento climatico abbia già causato perdite permanenti e irreversibili: pensiamo agli abitanti di molti Stati insulari che devono essere rilocati perché l’innalzamento dei mari inghiottirà le loro terre, e che quindi vadano ben al di là di un semplice finanziamento per l’adattamento ai cambiamenti in atto. Tutt’al contrario, essi chiedono un vero e proprio rimborso dei danni. Si capisce immediatamente come simili eventualità possano essere politicamente divisive, ben al di là delle varie technicalities, per esempio su come individuare questi danni, che molte volte sono citate. Infatti il tema del “loss and damage” non è stato incluso nell’accordo di Parigi ed è stato ragione di forte scontro durante la COP di Glasgow. Scontro che si è incanalato poi all’interno del cosiddetto “Glasgow climate pact”, che oltre a prendere nota del mancato raggiungimento dei 100 miliardi di dollari entro il 2020, prevede anche l’avvio dei lavori per la definizione di un nuovo obiettivo finanziario per il periodo post-2025, un sollecito verso i Paesi sviluppati a raddoppiare (rispetto ai livelli del 2019) entro il 2025 i finanziamenti destinati all’adattamento così da raggiungere un maggior equilibrio tra mitigazione e adattamento. Inoltre il Glasgow Climate Pact riconosce ulteriormente la presenza di loss and damage dovuti al clima in capo ai Paesi più vulnerabili e l’avvio di un dialogo per l’istituzione di un fondo specifico a essi dedicato. Fondo che ancora oggi non esiste e che anzi è sempre più motivo di divisioni.

 

Questione di redistribuzione

Un veloce sguardo agli andamenti della finanza climatica ci mostra immediatamente che alla retorica sulla lotta al cambiamento climatico non segua di pari passo un’adeguata azione. Questo è insito nella natura stessa del problema che si sta cercando di affrontare e che implica, tra le altre cose, azioni di redistribuzione di risorse in un contesto di mancanza di percezione di “comunanza di destini” che è invece alla base di una qualsiasi politica redistributiva. L’attuale aggressione russa dell’Ucraina, i venti di scontro che si levano nell’Indopacifico, la crescente frattura tra Stati Uniti e Cina non faranno altro che approfondire questa reciproca diffidenza. Già oggi lo vediamo in atto, per esempio, nella forma di manipolazione delle narrative che vedono nelle sanzioni occidentali contro la Russia la causa (invece che l’aggressione stessa a una nazione sovrana) delle crisi alimentari ed economiche che attanagliano sempre più i Paesi del Global South, a loro volta già fortemente debilitati dalle conseguenze della pandemia di Covid-19. La coincidenza della prossima COP in terra africana, a Sharm el Sheikh, e una Presidenza come quella egiziana, fortemente impegnata a incentrare i negoziati sul tema della finanza e della giustizia climatica tra Nord e Sud del mondo, rischiano quindi di trasformarsi in un detonatore che porterà ancora di più le parti a dividersi tra loro.

Le diplomazie occidentali avranno quindi il difficile compito di riuscire a mantenere unito il fronte della lotta al cambiamento climatico evitandone una strumentalizzazione rispetto ad altre questioni e narrative geopolitiche. Le esigenze delle economie emergenti non potranno e non dovranno essere ignorate e segni positivi in tal senso già se ne vedono. Si pensi alla Danimarca che per prima ha stanziato dei fondi dedicati propriamente per il “loss and damage” (prima di lei solo Scozia e Vallonia avevano fatto altrettanto, ma si tratta di Stati non riconosciuti dalle Nazioni Unite). Tutto questo però cercando di mantenere la barra dritta sugli sforzi per la mitigazione dei cambiamenti climatici, che è l’unica vera soluzione per risolvere il problema. Questo si traduce anche in un controbattere immediatamente a quelle narrative che oggi denunciano un doppio standard occidentale nel rivolgersi agli idrocarburi africani per sostituire quelli russi, ma al contempo impegnarsi a impedire agli africani di utilizzare per il loro sviluppo quegli stessi idrocarburi invocando invece un uso delle rinnovabili.

 

Le altre COP: biodiversità e desertificazione

Infine, un occhio attento verso le COP sorelle, quelle sulla biodiversità e desertificazione. Alla Pre-COP di Kinshasa di inizio ottobre è infatti passato in sordina la proposta di un coordinamento “tropicale” tra Brasile, Indonesia e Repubblica democratica del Congo. Tre Paesi sul cui suolo si estendono la maggior parte delle foreste pluviali del mondo, vero polmone del nostro Pianeta, e che hanno deciso di agire insieme per affrontare con maggiore efficacia temi quali il finanziamento della conservazione delle foreste e della biodiversità che loro considerano un servizio che stanno facendo al mondo. Questo li porterà ad agire con un comune filo conduttore lungo tutti i prossimi round negoziali, che dopo la tappa della COP27 sul clima a novembre di Sharm si sposteranno a dicembre a Montreal per la COP15 sulla biodiversità. Ulteriore segnale importante su come la politica anche da noi dovrebbe iniziare a trattare questi temi secondo un’ottica sempre più integrata.

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Geoeconomia cop27 Egitto
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AUTORI

Stefano Salomoni
Analista Geopolitico

Image Credits (CC BY 2.0): NASA Goddard Space Flight Center

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