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Commentary
In Corea del Sud la piazza non è mai morta
Francesca Frassineti
07 novembre 2019

Da settimane in Corea del Sud il governo si trova ad affrontare l’ennesima crisi di consenso e legittimazione a causa di uno scandalo giudiziario. Il 14 ottobre scorso il Ministro della giustizia Cho Kuk si è dimesso a seguito delle proteste popolari scaturite da una serie di accuse che lo vedrebbero, insieme a vari membri della sua famiglia, invischiato in investimenti finanziari poco trasparenti, esami di ammissione truccati per favorire l’accesso dei figli nelle migliori università del Paese e favoritismi nelle gare d’appalto. Ex segretario presidenziale per gli affari civili e la giustizia, Cho era stato nominato, il 9 agosto scorso, Ministro della Giustizia dal presidente Moon Jae-in e dopo non essere stato confermato dall’Assemblea nazionale, passaggio in questo caso non necessario, ha ricoperto la carica per poco più di un mese.

A farne le spese è l’agenda interna del presidente Moon che ha comunque continuato a sostenere la sua scelta anche di fronte al moltiplicarsi delle accuse contro Cho. Nel maggio 2017 l’allora neo-eletto presidente aveva dichiarato che la sua amministrazione avrebbe garantito “eguali opportunità, equità e giustizia” contribuendo a creare un “mondo in cui i privilegi e le scorrettezze non avrebbero più trovato posto”. Consapevole della necessità di dare un segnale di forte discontinuità rispetto al corso dell’appena deposta presidente Park Geun-hye, ha dato immediatamente avvio a quella che comunemente è definita una campagna anti-corruzione, ma che il termine coreano, jeokpae cheongsan, indica come un processo più profondo volto a “estirpare i mali” sedimentatisi nelle viscere della politica e della società che soprattutto le fasce più giovani della popolazione percepiscono come ingiusta e iniqua.

Vittime illustri sono nel frattempo cadute nella rete: tra queste l’ex presidente Lee Myung-bak, condannato a quindici anni di reclusione nel 2018, e vari membri della sua amministrazione e di quella successiva a guida Park (tra gli altri un ex ministro della difesa, un consigliere per la sicurezza nazionale e due direttori dell’intelligence sudcoreana). Non ne è rimasto indenne quindi nemmeno colui che nei fatti ha gestito gli sforzi del governo Moon e che si trova ora al centro del più serio scandalo che l’attuale esecutivo si sia finora trovato a gestire.

Le dimensioni del caso che sta montando attorno a Cho sono, per il momento, ancora limitate rispetto alla pervasività di molti episodi di abuso di potere che hanno segnato tutte le amministrazioni sudcoreane. Già dalle prime indiscrezioni, però, la vicenda ha infiammato gli animi perché per molti sudcoreani infrange la fiducia e le aspettative di rigore morale e incorruttibilità che alla vigilia del loro insediamento avevano circondato i membri – molti dei quali in prima linea nei movimenti studenteschi contro i leader autoritari negli anni Settanta e Ottanta e per questo incarcerati – di questo governo progressista che dopo dieci anni dall’ultimo è tornato alla Casa Blu, facendosi portatore delle istanze della “rivoluzione delle candele accese”.

Nelle ultime settimane le strade della capitale Seoul e delle principali città hanno riproposto scene a cui gli osservatori della politica coreana sono ormai abituati; proteste e contro-proteste, spesso simultanee, che mettono in luce la polarizzazione e lo scontro ideologico all’interno della società sudcoreana. I conservatori, che guidano il fronte anti-Cho, sfruttano queste prime crepe nella facciata di moralità del presidente Moon per superare le debolezze e le divisioni interne lasciate dal terremoto di due anni, a cui si contrappongono i progressisti schieratisi indefessamente a fianco del presidente e del suo fidato ex consigliere a cui spettava la riforma, in particolare, dell’Ufficio del procuratore nazionale, figura sempre più impopolare perché trasversalmente considerata detentrice di poteri eccessivi e per questo spesso strumento politico in mano ai presidenti. A partire dagli studenti universitari, disgustati dai presunti favoritismi di cui la figlia di Cho avrebbe beneficiato per entrare nella Ivy League sudcoreana, migliaia di persone hanno protestato, e probabilmente continueranno a farlo, chi contro la sua nomina e chi invece contro gli inquirenti, ritenendo che l’ex ministro abbia pagato in prima persona per le riforme al settore della giustizia.

Le proteste e le manifestazioni popolari dimostrano ancora una volta di essere l’elemento più caratterizzante della democrazia sudcoreana. L’attivismo e la partecipazione al di fuori delle istituzioni sono state cruciali nel determinare le cosiddette “giunture critiche” con cui si definiscono in letteratura quei momenti di svolta che possono determinare il successo o il fallimento di un processo di democratizzazione. Syngman Rhee, primo presidente della Repubblica di Corea, ha abbandonato il potere dopo l’insurrezione del 19 aprile 1960, gli stessi Park Chung-hee e Chun Doo-hwan, a capo di regimi brutali, non sono stati in grado di silenziare la resistenza organizzata da parte degli studenti, dei lavoratori e degli intellettuali. Episodi fondamentali quali le sollevazioni represse nel sangue a Gwangju nel maggio 1980 e la “primavera di Seoul” sette anni dopo hanno alimentato la consapevolezza della necessità di mantenere un costante controllo sull’operato delle autorità da parte dei cittadini anche dopo la fine del periodo autoritario data la scarsa rappresentatività delle istituzioni politiche.

La vibrante democrazia sudcoreana deve fare infatti i conti con un sistema partitico tradizionalmente debole, caratterizzato da una molteplicità di formazioni che essendo fortemente personalizzate sono destinate a scomparire al volgere della parabola politica dei loro leader, per poi riemergere sotto altro nome, e che non assolvono ancora pienamente alla funzione di corpo intermedio tra i cittadini e lo Stato. Nella maggior parte dei casi l’assenza di un’interazione sistematica tra questi due attori ha fatto sì che le energie della società civile siano rimaste entro i confini della piazza, ma questo non le ha impedito di intervenire per correggere alcune derive del sistema.

Questa specifica forma di cultura politica ha conosciuto la sua manifestazione più emblematica tra l’ottobre 2016 e il marzo 2017 quando ha di fatto innescato il processo parlamentare, prima, e quello giudiziario, poi, che hanno portato alla prima destituzione presidenziale nella storia sudcoreana. Ciò ha chiaramente galvanizzato la popolazione sempre più convinta dell’efficacia dello strumento della protesta, non solo per riappropriarsi, ma per consolidare le libertà e i diritti che le sono stati lungamente negati. Dovendo rifondare il rapporto tra i cittadini e le istituzioni, le priorità di Moon sono state quelle di rendere la gestione della cosa pubblica più trasparente e di rispondere alle istanze di giustizia sociale di fronte a indicatori socio-economici, in primis il tasso di disoccupazione, sempre più allarmanti. Nonostante gli sforzi per promuovere misure redistributive volte ad alleviare la pressione del debito sulle famiglie e a creare una competizione più equa nel panorama produttivo tra le piccole e medie imprese e i colossi industriali (chaebol), i risultati sono finora insoddisfacenti. Prima di dimettersi l’ex ministro era riuscito a firmare la proposta di riforma che ora è all’esame dell’Assemblea nazionale, ma questo imbarazzo potrebbe costare caro a Moon il cui tasso di popolarità è in caduta – attualmente al 48,5% mentre al momento della sua elezione godeva dell’80% di gradimento - per quanto costituisca una flessione ‘fisiologica’ che ha accomunato tutti i presidenti prima di lui a metà del mandato (in Corea del Sud non è rinnovabile), perché va a sommarsi al rallentamento dell’economia. La strada del Partito democratico, il partito di governo, verso la riconferma della maggioranza parlamentare alle elezioni dell’aprile 2020 pare dunque sempre più in salita.

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Università di Pavia

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Corea del Sud Asia
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AUTORI

Francesca Frassineti
ISPI Associate Research Fellow

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