È di 66 morti e 1501 persone contagiate il bilancio attuale della diffusione di Covid-19 in Iran. L’Iran, un paese di 83 milioni di persone, è emerso nelle scorse settimane come uno dei principali epicentri, fuori dalla Cina, della diffusione del coronavirus.
Secondo i dati disponibili, il tasso di letalità ha fluttuato nell’ultima settimana tra l’8 e il 18%, risultando in ogni caso di molto superiore a quello in Cina, pari a circa il 3%.
C’è però il dubbio che i dati rilasciati dal governo siano ampiamente sottostimati rispetto alla realtà. Secondo un team di epidemiologi canadesi, che ha elaborato un modello matematico basato su diverse variabili quali il tasso di morbosità e di letalità da coronavirus nel mondo, i casi di contagio in Iran sarebbero almeno 18.000. Una cifra assai superiore ai circa 1500 casi dichiarati dal governo di Teheran.
Come ha affermato il vice-ministro della salute Iraj Harirchi, attualmente in quarantena perché positivo al coronavirus, “le malattie sono democratiche”, e in Iran abbiamo visto rimanere vittime del contagio anche alcuni esponenti dei più alti livelli dello stato: dalla vice-presidente Masoumeh Ebtekar al vice-ministro della salute Harirchi, passando per numerosi ayatollah dei ranghi più prestigiosi. Tra le vittime, l’ex ambasciatore presso la Santa Sede, l’ayatollah Sayyed Hadi Khosroshahi e Mohammad Mirmohammadi, membro del Consiglio per il discernimento. Come riporta CNN, 23 membri (ovvero l'8%) del parlamento sono risultati positivi al coronavirus.
Ma quali sono le origini della diffusione del coronavirus in Iran e perché l’Iran è un caso particolare?
Il focolaio iraniano sembra essere partito da Qom, la città a sud di Teheran sede dei principali seminari sciiti: il 19 febbraio il governo iraniano dichiara il decesso di due persone che sembrerebbero aver contratto il virus da un commerciante che era partito da Wuhan.
Si presume dunque che la diffusione del contagio sia iniziata tra le tre e le sei settimane fa, ma la mancata tempestività nell’adozione di misure restrittive ha fatto sì che il contagio si estendesse ampiamente nel paese: 8 giorni dopo il primo decesso, il virus era presente in 24 delle 31 province iraniane.
L’atteggiamento iniziale da parte delle autorità è stato quello di tentare di ridimensionare l’entità della minaccia per tre motivi principali: la necessità di non mettere in pericolo la relazione con la Cina (principale partner economico), il desiderio di non trasmettere all’esterno un’immagine di debolezza, e l’esigenza di garantire la partecipazione di massa a due appuntamenti fondamentali per la Repubblica islamica, ovvero le celebrazioni per l’anniversario della rivoluzione e le elezioni parlamentari.
È così dunque che si è arrivati alla situazione attuale. Oggi si cerca di correre ai ripari: chiuse le scuole, sospese le preghiere del venerdì, disinfettate le strade e i luoghi pubblici. La sanità iraniana, normalmente ben funzionante, si trova però sotto enorme pressione. Ciò è dovuto anche all’effetto delle sanzioni che da più di un anno isolano economicamente il paese. Anche se il settore sanitario è in teoria esente dalle sanzioni, negli ultimi due anni questo ha pesantemente risentito delle misure restrittive imposte da Washington agli scambi tra l’Iran e il resto del mondo.
E così, se gli effetti economici della crisi legata al coronavirus si preannunciano pesanti in tutto il mondo, in Iran rischiano di aggiungersi a una crisi economica già endemica. La chiusura delle frontiere verso l’Iran ordinata dai principali paesi della regione (Iraq, Turchia, Armenia, Afghanistan, Pakistan) rischia di mettere in seria difficoltà le esportazioni nei settori non-oil, che nell’ultimo anno hanno garantito entrate per 3,5 miliardi di dollari al mese. Per il momento, l’effetto più dirompente si è avuto sul rial, la valuta locale, crollata del 7% nella settimana successiva all’annuncio dei primi decessi. Anche i consumi interni, già penalizzati dal crollo del potere di acquisto dovuto alle sanzioni, sono in forte difficoltà: a rischio gli spostamenti e i festeggiamenti per il Nowruz, il capodanno persiano, il prossimo 21 marzo.
Ma il coronavirus è diventato anche uno strumento di scontro geopolitico con gli Stati Uniti: il segretario di stato americano Mike Pompeo ha offerto aiuti umanitari a Teheran, che li ha però rifiutati accusando Washington di ipocrisia. Del resto, se gli Stati Uniti volessero davvero dare un segnale a Teheran, dovrebbero allentare la morsa sanzionatoria per alleviare le gravi conseguenze sull’economia iraniana. Nel frattempo, Francia, Germania e Regno Unito (E3) hanno annunciato lo stanziamento di un pacchetto di aiuti, materiali e finanziari, per aiutare Teheran a fronteggiare l’emergenza. Oltre a kit per test di laboratorio, tute protettive e altro materiale sanitario, gli E3 si sono impegnati a sostenere gli sforzi anti-Covid19 di Teheran con circa 5 miliardi di aiuti finanziari, da convogliare al paese attraverso l’Organizzazione mondiale della sanità e altre agenzie Onu.
“Se non morirò per il coronavirus morirò di fame” ha dichiarato un cittadino iraniano a Reuters. Il fronte iraniano è dunque uno dei più letali, non solo per la diffusione della malattia, e non solo nelle ultime settimane.