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Economia
Coronavirus: l’insostenibile pesantezza del debito italiano
Antonio Villafranca
19 marzo 2020

Da alcune settimane è ormai chiaro che il coronavirus non è solo una emergenza sanitaria. Lo spettro di una recessione mondiale è ormai alle porte. Con queste prospettive i paesi più indebitati rischiano di essere travolti da una crisi finanziaria. O detto in altri termini, la loro solvibilità potrebbe essere messa in dubbio al punto di arrivare al ‘default’.

Con un debito pubblico superiore al 133% del proprio Pil l’Italia rientra pienamente tra questi paesi. Anzi a ben vedere è tra quelli su cui si concentrano le maggiori preoccupazioni data la dimensione dell’economia italiana rispetto a quella di altri paesi a rischio (emergenti e non) decisamente più piccoli. Certo, prima del coronavirus non ce ne preoccupavamo più di tanto perché per vendere i nostri titoli a 10 anni potevamo limitarci a pagare un tasso di interesse intorno all’1%. Una situazione tutto sommato non preoccupante perché l’Italia doveva limitarsi a tenere il deficit primario (la differenza tra quanto lo stato incassa e quanto spende ogni anno dopo aver pagato la spese per gli interessi sul proprio debito) sotto il 2% del Pil. In questo modo il nostro debito sarebbe certamente rimasto ingente, ma non sarebbe aumentato.

Insomma, si trattava di una situazione economicamente sostenibile. Ma anche politicamente sostenibile, perché in fondo il governo italiano non avrebbe dovuto procedere a tagli significativi alla propria spesa per ripagare il debito. Nelle ultime settimane la situazione è cambiata radicalmente. Il nostro spread è schizzato in alto superando addirittura i 300 punti base. Non siamo ai livelli della precedente crisi finanziaria – quando lo spread era andato sopra i 500 punti base – ma l’aumento è stato comunque impressionante. E costoso. Basti pensare che per ogni 100 punti base di aumento dello spread per un intero anno, l’Italia paga 4 miliardi di euro in più in spesa per interessi (che sfiorerebbe quindi nel suo complesso i 70 miliardi all’anno). E questo senza contare la spesa per interessi sui 25 miliardi del provvedimento ‘Cura Italia’ che prenderemo a prestito dai mercati.

L’aiuto dall’Europa: è necessario…

Seppur tecnicamente il fatto che lo spread abbia superato i 300 punti base non faccia scattare alcuna soglia critica in merito alla sostenibilità del nostro debito pubblico, questo rischia comunque di far scattare pericolose soglie ‘psicologiche’. I mercati hanno infatti già mostrato in passato comportamenti ‘irrazionali’, che possono mettere a repentaglio la solidità finanziaria di interi paesi. Da qui l’esigenza di una ‘difesa europea’ e di un intervento deciso non solo in capo ai governi dei paesi membri ma anche da parte della Banca centrale europea. D’altra parte, se il debito pubblico italiano non viene considerato sostenibile dai mercati a rischiare non è solo l’Italia ma l’intera eurozona. Proprio per questo la ‘gaffe’ della presidente della Bce di qualche giorno fa non è stata solo un errore di comunicazione, ma anche di previsione. O, se si vuole, di lettura dei possibili sviluppi del contesto economico-finanziario.

Va quindi accolto con grande favore il dietro-front di ieri sera da parte di Christine Lagarde. Significative le nuove misure introdotte dalla Bce che si sommano a quelle della scorsa settimana.  A colpire è certamente l’ammontare complessivo – 750 miliardi di euro – per l’acquisto di titoli dei paesi membri, ma anche delle imprese. Questo nella giusta convinzione che le imprese possano trovare difficoltà a reperire credito presso le banche malgrado la Bce abbia reso disponibile maggiore liquidità alle banche stesse. Molto bene per l’Italia anche la possibile deroga alla ‘capital key’. In pratica nell’acquistare i titoli dai vari stati membri la Bce non dovrà necessariamente farlo col bilancino (fino al 13% per l’Italia, ovvero pari alla quota di capitale della Bce posseduta dal nostro paese); potrà farlo più liberamente prediligendo gli acquisti dai paesi più esposti (quindi potrà aumentare l’acquisto di titoli dall’Italia per oltre 97 miliardi di euro). Ma ben più delle misure e delle cifre, a contare sono soprattutto le parole.  La Presidente Lagarde ha affermato “Non ci sono limiti al nostro impegno per l’euro”. Sì, questa era proprio la frase giusta da dire. E ricorda molto da vicino il ‘whatever it takes’ di Draghi, adattato ai nostri giorni.

…ma non è sufficiente

Tutto ciò potrà allentare le tensioni sui mercati e in particolare sui titoli di stato italiano, ma non potrà eliminarle del tutto. Soprattutto non elimina le debolezze legate ai nostri conti pubblici. Con un debito che potrebbe addirittura sfiorare il 140% del Pil dopo le spese già giustamente previste (o che dovessero essere ritenute necessarie nei prossimi mesi) per fronteggiare il coronavirus, la sostenibilità del nostro debito potrà di nuovo essere messa in discussione. Non dovremmo invece più permettere che un qualsiasi ‘shock esterno’ ci colpisca con maggiore violenza rispetto agli altri. Non lo abbiamo imparato all’indomani del referendum su Brexit quando la nostra borsa è crollata più delle altre. E non lo abbiamo imparato dalle vicende in Catalogna, quando il nostro spread è aumentato più di quello spagnolo. La sostenibilità del nostro debito pubblico è una questione di interesse nazionale da affrontare con convinzione quando l’emergenza coronavirus sarà terminata perché ci lascia troppo spesso in balia degli altri. In quest’ottica sarebbe peraltro opportuno superare le attuali resistenze italiane sulla riforma del Fondo salva-stati. Se i mercati mettessero ancora in dubbio la sostenibilità del nostro debito pubblico sarebbe decisamente meglio contare sulle regole chiare e trasparenti del Fondo, piuttosto che doversi arrendere a un percorso pericolosamente disordinato.

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AUTORI

Antonio Villafranca
ISPI Research Coordinator and Co-Head, Europe and Global Governance Centre

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