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La crisi

Cosa c'entra il debito pubblico con le dimissioni di Boris Johnson

Marco Varvello
08 luglio 2022

Era in programma per la prossima settimana un annuncio congiunto del Premier Boris Johnson e del Cancelliere dello scacchiere Rishi Sunak, Ministro delle finanze. Nei piani di Downing street i due avrebbero dovuto delineare insieme la strategia economica post-pandemia e soprattutto post-Brexit, per esaltare le opportunità offerte dall’uscita del Regno Unito dall’Unione europea.

Ma proprio le dimissioni di Sunak, assieme a quelle del Ministro della salute Javid, hanno innescato l’altro giorno la valanga di partenze dal governo, che ha costretto alla fine Johnson alle dimissioni. La tempistica dunque dimostra che c’è molto di più del Partygate o dello scandalo del “pizzicatore” Pincher dietro la fine del governo inglese. Nemmeno tre anni di vita, nonostante fosse stato rafforzato da una maggioranza schiacciante, uscita dal voto anticipato di fine 2019.

Ma Boris Johnson è così: un trascinatore in campagna elettorale, populista nei modi e nelle promesse; disastroso invece nella gestione e nell’esercizio di governo. Dietro la perdita di credibilità per le sue ripetute bugie alla camera dei Comuni c’è dunque uno scontro di fondo sulle prospettive economiche del paese. Uomo di destra e liberista estremo, Johnson non ha esitato però a dare il via a massicci aiuti pubblici: non soltanto per i settori danneggiati dall’uscita post Brexit dal mercato unico europeo (ad esempio l’automotive), ma anche per lavoratori e imprese durante la pandemia, con prestiti a fondo perduto e cassa integrazione (Forlough) anche agli autonomi.

Poi è arrivata la guerra in Ucraina, che ha visto il governo inglese in prima fila nella fornitura di armi e negli aiuti economici e finanziari a Kiev. Così il debito pubblico britannico è esploso, passando dal 75/77 per cento del PIL pre-Brexit a quasi il 100/100 in primavera, livello mai raggiunto dopo gli anni Sessanta. “Legittimo uso della mano pubblica in tempi di emergenza”, Johnson così ha difeso le sue scelte. Il problema, però, è stato proprio voler continuare ad andare avanti in quella direzione.

Mentre Sunak e l’ala più ortodossa dei conservatori puntavano a cominciare un rientro graduale, Johnson, spinto dalle faide interne e sotto pressione per Partygate e gli altri episodi fatti uscire sapientemente dai suoi nemici, continuava a promettere nuovi investimenti per le aree depresse del Paese, taglio di tasse e aumento delle pensioni. Un libro dei sogni in una congiuntura economica di crisi generale, a cominciare dal costo dell’energia che ha fatto schizzare l’inflazione in Inghilterra all’11 per cento tendenziale, previsto entro l’anno. Molti nel partito conservatore guardavano inorriditi alle roboanti dichiarazioni del Premier, sempre più avulse da un contesto economico domestico ed internazionale che avrebbe invece consigliato di parlare apertamente al Paese, preparando i cittadini ad un periodo di sacrifici.

Ma evidentemente le “lacrime e sangue” del suo idolo Churchill non sono in realtà parole amate dal politico Johnson. Molti hanno ricordato che l’ormai ex Premier, ad esempio durante il suo periodo da sindaco di Londra, amava piuttosto “splash the cash”. Munifico e generoso per sé e per gli altri, se si trattava di denaro pubblico. In tempi difficili come questi un atteggiamento troppo disinvolto insomma, decisamente rischioso.

Così non è davvero un caso che la rivolta finale contro Johnson sia nata dalle dimissioni del suo ministro economico. C’è davvero molto di più dietro questa crisi che non i brindisi a Downing street durante i lockdown. Un’uscita drammatica, con uno strascico che può creare una crisi anche istituzionale se davvero Johnson si ostinerà a rimanere a Downing street fino alla elezione del successore.

Continua insomma lo stupefacente periodo di instabilità della politica britannica. Un tempo sinonimo di governi stabili e duraturi, il Regno Unito dopo il voto del 2015 (Cameron Premier per la seconda volta) ha visto il referendum sulla Brexit e elezioni politiche anticipate ogni due anni, nel 2017 e nel 2019. Adesso si escludono nuove consultazioni ma probabilmente la durata della legislatura, che dovrebbe teoricamente raggiungere il 2024, sarà invece più breve, con possibili elezioni l’anno prossimo.

Tutto dipenderà da se e come il nuovo (o nuova) leader del partito conservatore e nuovo (o nuova) Premier riuscirà a ricompattare le forze interne, sfruttando a pieno l’ampia maggioranza Tory alla Camera dei Comuni. Dopo il ciclone Johnson i conservatori sceglieranno probabilmente una guida tradizionale e solida. Nomi ce ne sono tanti, in queste ore arrivano le prime candidature ufficiali.

Nessuno di particolare spicco o carisma personale. Esattamente quello che ci vuole per rimettere ordine in un partito dilaniato e sotto stress, che ha trovato una parvenza di unità soltanto nella scelta di imporre a Johnson di andarsene. Come ha sintetizzato l’altro ribelle eccellente, l’ex Ministro della salute Sajid Javid, “enough is enough”. Chiuso un capitolo, ora il dopo Johnson è tutto da scrivere.

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UK Boris Johnson economia
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AUTORI

Marco Varvello
RAI

Image credits: Andrew Parsons / No 10 Downing Street (CC BY-NC-ND 2.0)

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