Cosa lega Minneapolis a Hong Kong | ISPI
Salta al contenuto principale

Form di ricerca

  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • CONTATTI
  • MEDMED

  • login
  • EN
  • IT
Home
  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • CONTATTI
  • MEDMED
  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri ristretti
    • Conferenze di scenario
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI

  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri ristretti
    • Conferenze di scenario
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI
Sfide globali
Cosa lega Minneapolis a Hong Kong
Giampiero Massolo
05 giugno 2020

Minneapolis e Hong Kong. Realtà diversissime, in nazioni diversissime. Entrambe, tuttavia, sintomi di malesseri e conflitti che finiscono per assomigliarsi. Entrambe, suscettibili di mettere i rispettivi governi e assetti politici di fronte a fenomeni dirompenti rispetto alle loro contraddizioni.

Entrambe vittime di quel formidabile acceleratore di tendenze che è la pandemia da Covid-19 e delle sue conseguenze sanitarie, economiche e sociali.

Intendiamoci, le ragioni che hanno portato in piazza gli afroamericani in molte città statunitensi e quelle degli abitanti cinesi dell’ex territorio britannico sono profondamente differenti.

Le cause del disagio americano sono profonde e strutturali. Riguardano quel “divide” storico e tuttora irrisolto, malgrado perfino la presidenza Obama, che sostanzialmente nega a quel gruppo etnico americano, più ancora che a tutti gli altri, parità di condizioni e opportunità. Il ginocchio premuto da un poliziotto a Minneapolis sul collo di un afroamericano fino al suo soffocamento è stata solo la miccia della rivolta. Di fatto ha riproposto plasticamente una realtà di disagio, povertà, disoccupazione, insufficiente scolarità, che la pandemia ha ulteriormente messo in evidenza, accentuandone gli aspetti di vulnerabilità sanitaria. Un senso di diversità e diseguaglianza, facilmente strumentalizzabile da suprematisti e violenti di professione, interessati ad esasperare le tensioni.

Una sintesi politica per tentare di comporre le contraddizioni e delineare una prospettiva di evoluzione dovrebbe essere un riflesso automatico. Ma la peculiarità è proprio qui e ha una duplice natura, soggettiva e sistemica. Soggettiva, perché il presidente Trump vede nelle divisioni un modo per rimobilitare lo zoccolo duro del suo elettorato, bianco e della classe media, che ne permise l’elezione quattro anni fa. Sistemica, perché proprio il sistema elettorale americano, incentrato sui grandi elettori espressi dagli Stati, rende sufficiente vincere nei cosiddetti “swing States” per assicurarsi la presidenza, anche senza raggiungere la maggioranza del voto popolare.

Insomma, se Minneapolis insegna qualcosa è che, oggi come oggi, perfino in una grande democrazia occidentale, si può ritenere che violenza e conflitto possano dare dividendi politici.

Paradossalmente, pur con tutti i distinguo del caso, non siamo molto lontani da come realtà e opportunità politiche appaiono viste da Pechino. Già prima del Covid-19, le proteste ad Hong Kong avevano messo alla prova la capacità di reazione del regime, da anni impegnato a esorcizzare lo spettro di piazza Tienanmen. Enorme la posta in gioco: la tenuta della formula “un Paese, due sistemi”, alla base del capitalismo di Stato e della territorialità stessa della Cina, anche in prospettiva verso Taiwan. La fallimentare e opaca gestione delle fasi iniziali della pandemia, le richieste di trasparenza rivolte a Pechino dalla comunità internazionale, il rischio di trovarsi invischiati in lunghe e macchinose procedure giudiziarie negli Stati Uniti, il riaffacciarsi delle manifestazioni di piazza: tutti fattori che fanno sentire il regime di Xi sul banco di prova come mai fino ad ora. Anche lì, dunque, un problema di sopravvivenza politica. Non in libere elezioni naturalmente, ma nel contesto di quei meccanismi impalpabili che rendono più o meno solida la sorte di un leader in un regime assoluto.

E la reazione della leadership cinese è il nazionalismo. Affrontando in piazza, con la repressione, i manifestanti di Hong Kong, imponendo una nuova legge sulla sicurezza nazionale che ne vanifica l’autonomia, sfidando apertamente gli Stati Uniti perfino sul futuro di Taiwan.

Se dunque Hong Kong insegna qualcosa, è ancora che l’esasperazione anche violenta del confronto può essere ritenuta utile a perseguire fini politici.

L’Unione europea dovrebbe essere più attenta a questi segnali preoccupanti. Da un’America tentata di lucrare sui conflitti, da una Cina senza più gradualismo, da relazioni esasperate tra Washington e Pechino che riducano ulteriormente gli spazi del mondo globalizzato, abbiamo tutto da perdere. L’Europa non prospera sulle contrapposizioni. Dovremmo invece prevenire per tempo a casa nostra i pericolosi conflitti sociali che incombono, indebolendoci, nel dopo Covid-19 e rafforzare coesione e identità europee. Ci renderemmo più credibili e renderemmo un eccellente servizio alla causa di un rapporto transatlantico più saldo e maturo. Comunque sempre insostituibile, perché ancora fondato su valori comuni, nell’odierno mondo privo di leadership.

Faremmo la nostra parte per aiutare anche noi stessi: è una chance esistenziale che l’Europa ha di fronte.

 

 

*Articolo pubblicato nell'edizione cartacea del quotidiano La Stampa del 2 giugno 2020

Contenuti correlati: 
Global Watch Coronavirus: Speciale Geoeconomia n.12

Ti potrebbero interessare anche:

Russia e USA: la minaccia è negli occhi di chi guarda?
Eleonora Tafuro Ambrosetti
ISPI Research Fellow
Actions on Afghanistan During the Biden Administration’s First 100 Days
Barnett R. Rubin
New York University and Quincy Institute for Responsible Statecraft
The Afghan Peace Process After Trump: What Comes Next?
Giuliano Battiston
Independent Researcher
,
Giulia Sciorati
ISPI Asia Centre
Egypt and the West: Ten Years of Misunderstandings
Koert Debeuf
Institute for European Studies IES
La crescita delle attività navali della Cina
Guido Olimpio
Corriere della Sera
Dove andranno i fondi UE?

Tags

Europa USA Cina Hong Kong
Versione stampabile

AUTORI

Giampiero Massolo
Presidente ISPI

SEGUICI E RICEVI LE NOSTRE NEWS

Iscriviti alla newsletter

Chi siamo - Lavora con noi - Analisti - Contatti - Ufficio stampa - Privacy

ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) - Palazzo Clerici (Via Clerici 5 - 20121 Milano) - P.IVA IT02141980157