L’intervento militare della Turchia nel nord-est della Siria non ha soltanto l’obiettivo di combattere le milizie curde dell’Unità di Protezione Popolare (YPG[1]), considerate da Ankara vicine al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK[2]), ma punta anche a perseguire importanti risultati strategici. L’analisi del piano militare turco consente di identificare almeno tre obiettivi primari dell’operazione: impedire la creazione di una regione autonoma curda nel cosiddetto Rojava[3]; compattare il consenso interno in Turchia; cambiare gli equilibri politici nell’est del paese.
Contro l’autonomia territoriale dei curdi
Il primo obiettivo dell’intervento turco è di impedire la creazione di una regione autonoma curda nel Rojava, sotto il controllo delle YPG. La soluzione più realistica sarebbe stata creare un territorio formalmente sottoposto all’autorità siriana, ma di fatto autonomo, sul modello del Kurdistan Iracheno. La dichiarazione del 2016 sull’autonomia della regione curda sembrava essere un primo passo in questa direzione. Tuttavia, tale ipotesi è di fatto fallita a causa di tre elementi che hanno caratterizzato il percorso politico di questo paese negli ultimi due anni: il progressivo disinteresse per il futuro della Siria da parte degli Stati Uniti; la convinzione del governo siriano di poter riprendere gradualmente il controllo delle regioni a est dell’Eufrate a seguito di importanti vittorie militari; e la ferma opposizione della Turchia a ogni ipotesi autonomista.
Inoltre, la Turchia punta a far fallire qualsiasi progetto autonomista curdo attraverso il cambiamento della composizione etnica del Rojava. Dopo avere completato il dispiegamento delle truppe, il piano turco prevedrebbe infatti il graduale ricollocamento di un milione di rifugiati siriani, prevalentemente di etnia araba[4], oggi presenti in Turchia, in un territorio in cui si stima che vivano circa due milioni di curdi siriani[5]. La Turchia punta dunque a rendere questo territorio più frammentato dal punto di vista etnico e perciò meno propenso a spinte autonomiste oltre che a indebolire la presenza del YPG nella regione.
Tuttavia, i rischi che ne derivano sono molteplici. Lo scenario più probabile è quello di forti tensioni etniche tra la popolazione curda e quella araba e di un esteso malcontento all’interno delle due comunità legato alla distribuzione delle risorse naturali e delle opportunità lavorative. Un rischio ulteriore è quello di scontri armati tra i siriani di etnia araba, protetti dalle milizie arabe e turkmene alleate della Turchia, e i gruppi paramilitari curdi. Tale scenario costringerebbe le milizie curde a impegnarsi per anni in una serie di scontri interni a bassa intensità, rinunciando a qualsiasi tentativo di operare in territorio turco. La strategia del divide et impera turco consentirebbe perciò ad Ankara di indebolire i gruppi armati curdi per i prossimi anni e rafforzare la sicurezza del suo territorio.
Le ricadute per la politica interna
Un altro obiettivo dell’operazione militare è quello di compattare il consenso interno. L’attuale contesto turco è infatti caratterizzato da una fase di debolezza economica e da una crescente ostilità nei confronti dei rifugiati siriani (oltre 3,6 milioni). Il paese è appena uscito da un periodo di recessione e le stime del ministero dell’Economia prevedono una crescita del PIL dello 0,5% per il 2019. L’inflazione è cresciuta del 16,3% nel 2018 e dovrebbe rimanere in doppia cifra anche nel 2019 (+12,6% per l’OCSE). In estrema sintesi, molti cittadini turchi devono pagare prezzi più alti per i loro acquisti senza beneficiare di una forte crescita economica. In questo periodo di difficoltà finanziaria si sono registrati diversi episodi di insofferenza nei confronti dei siriani che vivono in Turchia. È molto probabile che la crisi economica e l’ostilità nei confronti dei rifugiati siriani siano tra le ragioni principali del calo di consensi per il partito del presidente Recep Tayyip Erdogan (AKP) nelle recenti elezioni locali. In questo contesto, l’intervento armato è funzionale ad accrescere il consenso interno per l’AKP in quanto l’operazione militare sposta il dibattito dai problemi dell’economia e dei rifugiati alla difesa dell’integrità nazionale. Il progetto di ricollocare i profughi siriani avrebbe già incontrato il sostegno di alcuni cittadini turchi.
Ci sono diversi elementi che indicano come l’intervento in Siria abbia già ottenuto un certo grado di consenso tra la popolazione turca, anche tra coloro che non sostengono l’AKP e il presidente Erdogan. Un’indicazione di questo sostegno per l’operazione è che tutti i principali partiti del parlamento hanno votato a favore dell’operazione in Siria, con qualche distinguo sulle modalità di gestione della crisi siriana. L’unica, prevedibile, eccezione è il partito Democratico dei Popoli (HDP) che ha ottenuto gran parte dei suoi voti nell’elettorato curdo più vicino ad alcune istanze autonomiste e socialiste del YPG. La ragione principale di questo ampio consenso è che la Turchia ha combattuto contro il PKK per oltre 30 anni e l’opinione pubblica turca considera l’operazione siriana in continuità con l’obiettivo di sconfiggere questa organizzazione. La visione prevalente del PKK in Turchia è che si tratta di un gruppo terrorista che mette in pericolo l’integrità territoriale del paese e la vita dei cittadini.
Come cambieranno gli equilibri?
Il terzo obiettivo della Turchia è di cambiare gli equilibri politici nell’est del paese. Allo stato attuale, il ritiro delle truppe americane dal nord della Siria non significa che gli americani lasceranno il paese, ma è più semplicemente un riposizionamento delle forze speciali verso sud. Gli Stati Uniti hanno dichiarato di volere lasciare il territorio siriano nel medio periodo, ma la presenza di truppe speciali in questa zona è ancora considerata dalla Casa Bianca come strategica in funzione anti-iraniana. L’amministrazione americana ritiene infatti essenziale che i curdi mantengano il controllo della zona est del paese per privare la Siria di importanti risorse energetiche. L’obiettivo è di rallentare il rafforzamento del governo di Damasco: il principale alleato di Teheran nella regione. Tuttavia, non è escluso che l’esercito turco si trovi nella condizione di dover compiere operazioni militari anche al di fuori della zona cuscinetto di circa 30 chilometri in cui è autorizzato a operare. Tali rappresaglie potrebbero creare non pochi imbarazzi alle cancellerie di Washington e Ankara. Il rischio di esporre le proprie truppe a questo genere di pericoli potrebbe convincere il presidente americano Donald Trump ad anticipare il ritiro dalla Siria.
Qualora gli Stati Uniti decidessero di lasciare la Siria nei prossimi mesi o anni, la Turchia si troverebbe nella condizione di doversi assicurare che il nord-est del paese non si trovi più sotto il controllo di milizie ostili ad Ankara. Una soluzione potrebbe essere quella di aprire un negoziato con il presidente siriano Bashar al-Assad sulla gestione della zona orientale del paese. In ultima analisi, la Turchia non potrà lasciare troppo a lungo le sue truppe nel Rojava e non è in grado di controllare l’intera regione a ovest del fiume Eufrate senza correre il rischio di esporre le sue truppe ad attacchi di guerriglia delle milizie curde. Inoltre, una permanenza prolungata della Turchia sull’intera regione controllata dalle milizie curde potrebbe irritare le altre potenze regionali. Un accordo tra questi due paesi potrebbe prevedere un progressivo ritiro della Turchia dalla zona di Idlib, dove mantiene alcuni punti di osservazione e una importante influenza politica, in cambio dell’assicurazione di Assad a riprendere il controllo (totale o parziale) di questo territorio e combattere con Ankara contro le milizie curde.
I rischi per Ankara
Nonostante la Turchia abbia le capacità per conseguire, anche solo in modo parziale, questi obiettivi, ci sono dei fattori di rischio che potrebbero complicare i piani di Ankara. Il primo è che la Turchia potrebbe trovarsi contro parte della sua popolazione curda (15-20% del totale), qualora, in presenza di vittime civili, si rendesse contro che lo scopo di Ankara non è indebolire il YPG. Se la maggioranza dei curdi dovesse avere un’opinione negativa sull’intervento, la Turchia correrebbe il rischio di un ritorno della violenza nelle zone a maggioranza curda nell’est del paese e di un aumento di diserzioni dei suoi soldati di etnia curda, come accadde negli anni Novanta. Tale scenario sarebbe difficilmente gestibile in presenza di un’operazione militare nel nord della Siria.
Il secondo rischio è che gli americani decidano di rimanere in Siria per lungo tempo. Inoltre, il governo di Ankara dovrebbe convincere la sua opinione pubblica dell’efficacia dell’operazione militare in presenza di un alto numero di vittime. Qualora le milizie curde riuscissero a mantenere le loro basi di appoggio nel sud del paese, dove si trovano gli americani, i turchi dovrebbero trovare il modo di intervenire senza contare sulla forza aerea. Gli USA hanno infatti negato ad Ankara il diritto di sorvolo sul territorio siriano.
Il terzo rischio è che dall’attuale conflitto esca rafforzato lo Stato islamico. In tale scenario, sia la Turchia sia gli Stati Uniti si troverebbero esposti agli attacchi del sedicente Califfato e ciò aumenterebbe i rischi per entrambi i paesi. Questa situazione potenzialmente esplosiva aprirebbe l’ennesima fase di conflitto in Siria e sarebbe davvero una sconfitta per tutti.
Note
[1] Il YPG è formato in larga parte da sostenitori del PYD, il Partito dell’Unione Democratica, vicino all’ideologia del leader carismatico del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) Abdullah Öcalan e, in misura minore, da membri di altre formazioni politiche curde. Per semplicità, ci si riferisce al YPG sia come gruppo armato sia come movimento politico, nella consapevolezza della complessità delle forze all’interno di questa formazione armata.
[2] Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan è un gruppo armato di ispirazione marxista che combatte per l’indipendenza del Kurdistan. L’organizzazione è designata come terrorista dagli Stati Uniti, dall’Unione Europea e dalla Turchia.
[3] Rojava è il termine usato dagli indipendentisti curdi per designare la regione storicamente abitata dai curdi in Siria. Si usa questo termine per distinguere la zona a maggioranza curda a nord del confine dall’intera zona sotto il controllo delle milizie curde e delle Forze Democratiche Siriane (SDF), che comprende anche territori a maggioranza araba. Il Rojava e la regione a maggioranza araba ad ovest dell’Eufrate formano l’‘amministrazione autonoma del Nord e dell’Est della Siria’.
[4] Le agenzie non registrano l’affiliazione etnica dei rifugiati, ma ci sono delle indicazioni che molti siriani in Turchia provengono dalle regioni a maggioranza araba come Aleppo, Idlib e Damasco.
[5] Non esistono stime ufficiali e imparziali sulla popolazione curda della regione nel cosiddetto ‘Rojava’. Si usa quindi una stima approssimativa.