Il cambiamento climatico genera ingiustizia. I paesi che soffrono maggiormente gli impatti del cambiamento climatico non sono affatto quelli che hanno contribuito di più alla genesi del fenomeno. All’interno di ciascun paese sono le comunità più povere e marginalizzate ad essere le più colpite. Inoltre, le future generazioni rischiano di vivere in condizioni climatiche ed ambientali ben peggiori di quelle delle generazioni precedenti. Tutte queste questioni devono essere adeguatamente affrontate e gestite a livello di politica nazionale ed internazionale.
Il concetto di “giustizia climatica” racchiude dunque diversi aspetti, in particolare aspetti di giustizia distributiva, di giustizia intergenerazionale e di contenzioso giudiziale. Prendiamoli brevemente ad esame.
Giustizia distributiva
Essendo il clima un bene pubblico globale, gli effetti dannosi provocati dall’aumento delle emissioni ricadono su tutti i paesi e tutti i popoli indipendentemente da chi ne sia più responsabile. Di fatto, è facile notare che non esiste alcuna corrispondenza tra chi maggiormente emette e chi maggiormente soffre le conseguenze di quelle emissioni. Da un lato, sebbene il cambiamento climatico sia destinato a investire tutti i paesi, alcuni tra questi sono esposti a rischi maggiori a causa di fattori geografici, socio-economici e politico-istituzionali. Tra i paesi più vulnerabili troviamo buona parte dei paesi dell’Africa subsahariana, il Sudest asiatico, l’America centromeridionale e i piccoli stati insulari in via di sviluppo (fig. 1).
Fig.1
Dall’altro lato, se guardiamo ai dati sulle emissioni cumulative a partire dalla rivoluzione industriale (fig. 2), gli Stati Uniti sono responsabili del 25% delle emissioni, i 27 paesi che attualmente formano l’UE del 22%, la Cina del 12,7%, la Russia del 6%, e l’India del 3%. I dati sulle emissioni attuali dipingono un quadro differente, con la Cina che costituisce il principale emettitore con circa il 28%. Al secondo posto ci sono gli Stati Uniti con il 14%, seguiti dall’India con il 6%, dalla Russia con il 5% e dal Giappone con il 4%. L’UE a 27 rappresenta l’8%. In questa classifica non vi è traccia dei paesi più vulnerabili, che hanno contribuito in forma marginale al problema sia in termini storici che per emissioni attuali. Basti pensare che l’intero continente africano è responsabile solo di un 3% delle emissioni cumulative.
Fig. 2
Questa mancanza di corrispondenza tra chi più emette e chi maggiormente soffre le conseguenze di quelle emissioni è alla base di un grande problema di giustizia ed equità, che trova riflesso in tutta la storia dei negoziati internazionali sul clima.
La questione di come differenziare equamente gli sforzi sulla mitigazione del cambiamento climatico e distribuire i relativi costi tra i diversi paesi (burden sharing) è sempre stata centrale e particolarmente controversa nei negoziati. Gli stati parte del sistema di governance del clima delle Nazioni Unite hanno cercato di accordarsi su alcuni principi per decidere in quale misura gli stati debbano contribuire agli sforzi di mitigazione.
Nel corso dei negoziati internazionali, la posizione tradizionale di molti paesi in via di sviluppo è quella di non voler essere sottoposti agli stessi target di riduzione delle emissioni applicati ai paesi sviluppati perché ciò, così sostengono, porrebbe un freno al loro percorso di sviluppo e, soprattutto, costituirebbe uno svantaggio e un’ingiustizia rispetto a quei paesi che hanno potuto intraprendere il processo di industrializzazione quando questi limiti non esistevano affatto.
La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) e i successivi accordi sul clima (il Protocollo di Kyoto e l'Accordo di Parigi) sono addivenuti a diverse formulazioni e compromessi relativi alla distribuzione degli sforzi tra le parti. Tutto ciò si basa sul principio delle responsabilità comuni ma differenziate, che riconosce che la tutela del clima costituisce un obiettivo comune di tutta la comunità internazionale, ma allo stesso tempo giustifica una differenziazione degli oneri a carico dei paesi in considerazione della diversa misura in cui questi hanno contribuito e contribuiscono al deterioramento del clima. Il principio ha subito un processo di evoluzione, in particolar modo nel passaggio dal Protocollo di Kyoto (1997) all’Accordo di Parigi (2015). Mentre nel Protocollo di Kyoto vi era una netta differenziazione degli obblighi tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo soprattutto in termini di riduzione delle emissioni, l’accordo di Parigi ha eliminato la cosiddetta “biforcazione” (o firewall) tra i due gruppi di paesi creando regole e disposizioni comuni a tutte le parti. Tuttavia, ancora oggi permangono forme di flessibilità per alcuni paesi e gli stati sviluppati restano gravati da oneri più stringenti, incluso quello di fornire ausilio tecnologico e finanziario ai paesi in via di sviluppo.
Giustizia intergenerazionale
La dimensione spaziale non è l’unica investita dalla giustizia climatica. Vi è infatti anche una dimensione temporale molto significativa.
Gli effetti del cambiamento climatico si manifestano a distanza di decenni dal momento in cui vengono emessi i gas serra che lo provocano. Questo fatto pone una chiara questione di giustizia intergenerazionale in quanto già ora le generazioni attuali stanno scontando le conseguenze negative di comportamenti del passato ma saranno soprattutto le generazioni future a rischiare di veder compromesso il loro benessere, se non la propria esistenza, a causa di azioni e omissioni compiute dalle generazioni attuali. La mancata coincidenza tra gli individui che causano il problema e coloro che ne soffrono maggiormente le conseguenze aumenta di certo il rischio di una mancanza di volontà politica ad affrontare la questione.
Tuttavia, il fatto che gli effetti del cambiamento climatico abbiano iniziato a manifestarsi con maggiore intensità, in aggiunta ad una più spiccata sensibilità di alcuni segmenti della società civile e di una parte dei policy-makers, sembra aver aumentato l’urgenza del tema nell’agenda politica internazionale e dei singoli paesi. Negli ultimi tempi a livello internazionale sembra infatti essere partita una corsa alla neutralità climatica. Se le risposte concrete saranno all’altezza della sfida in atto e delle presumibili aspettative delle generazioni future rimane tutto da vedere.
Il contenzioso climatico
Un’altra dimensione della giustizia climatica è quella che riguarda il contenzioso giudiziale. Con l’espressione “contenzioso climatico” si fa riferimento a quella varietà di azioni legali che sollevano questioni di diritto o di fatto concernenti il cambiamento climatico, sia nei suoi aspetti scientifici sia in relazione alle politiche di contrasto di tale fenomeno (si veda in generale qui e qui).
Il contenzioso climatico si è sviluppato in primo luogo negli Stati Uniti e, in misura minore, in Australia sin a partire dalla fine degli anni Ottanta. Questo tipo di contenzioso si è poi esteso all’Europa nel corso degli anni duemila e infine a gran parte del cosiddetto Sud globale.
Ad oggi si contano circa 1840 casi di contenzioso climatico dinanzi a corti domestiche e internazionali, per la maggior parte ancora concentrati negli Stati Uniti (si veda il database curato dal Sabin Center for Climate Change Law, Columbia University e la figura 3).
Figura 3: Evoluzione storica dei casi di contenzioso climatico (distinguendo fra Stati Uniti e altri paesi) al maggio 2021. Fonte: Global Trends in Climate Change Litigation: 2021 snapshot, LSE.
L’espressione “contenzioso climatico” racchiude procedimenti giudiziali molto diversi tra loro.
I ricorrenti possono reclamare politiche di contrasto al cambiamento climatico più stringenti. D’altro canto, essi possono anche opporsi a tali politiche, ad esempio tramite ricorsi contro progetti di sviluppo che sfruttano fonti di energia rinnovabile come l’installazione di parchi eolici o impianti ad energia solare.
I convenuti in giudizio possono essere sia attori statali, principalmente governi, sia attori non statali, in particolar modo le grandi compagnie del settore dei combustibili fossili e del cemento, note come carbon majors, alle quali si attribuiscono più del 60% delle emissioni di gas ad effetto serra rilasciate finora nell’atmosfera.
Inoltre, le cause si differenziano anche per la base giuridica o, più in generale, per gli argomenti giuridici sollevati. Il ricorrente può impugnare un determinato atto che si presume in contrasto con obblighi climatici derivanti da un combinato di norme nazionali e internazionali, oppure richiedere la condanna del convenuto al risarcimento di un danno causato da un evento meteorologico estremo relazionato al cambiamento climatico (come una ondata di calore) o dalla mancata divulgazione dei rischi climatici agli investitori finanziari. I ricorrenti possono infine lamentare una violazione dei propri diritti fondamentali dovuta alle inadempienze climatiche da parte degli Stati o delle multinazionali. Il legame tra cambiamento climatico e diritti umani sta assumendo infatti un ruolo sempre più importante anche in sede di contenzioso.
Nel 2019 la Corte suprema olandese ha condannato il governo dei Paesi Bassi a ridurre ulteriormente le emissioni di gas ad effetto serra entro il 2020 (precisamente del 25% rispetto ai livelli del 1990) ai fini di proteggere adeguatamente il diritto alla vita dei propri cittadini. Il caso Urgenda, considerato “the ‘strongest’ climate ruling yet”, è presto divenuto un modello di riferimento per altre azioni legali nel resto del mondo. Nel contesto europeo, dopo il caso olandese, corti in Irlanda, Francia, Belgio, Germania si sono pronunciate a favore dei ricorrenti in contenziosi climatici. Sempre nei Paesi Bassi, nel maggio 2021, la corte distrettuale dell’Aia ha condannato, in primo grado, la (carbon major) Royal Dutch Shell a tagliare le sue emissioni entro il 2030. Nel mese di giugno 2021 è stata lanciata anche la prima causa climatica italiana. Più di 200 ricorrenti, tra i quali anche minorenni e associazioni ambientaliste, hanno chiesto al Tribunale Civile di Roma di accertare l’inadempienza dello stato italiano, rappresentato in giudizio dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel contrasto al cambiamento climatico e di condannarlo a tagliare le proprie emissioni entro il 2030. Simili cause sono state intentate anche in America del nord e del sud, Asia e Oceania, adattando l’azione alle specificità degli ordinamenti interni dei vari paesi. Ad esempio, in alcuni casi in America Latina la tutela del clima è perseguita anche promuovendo la natura a soggetto di diritto, come è successo all’Amazzonia colombiana per mano della Corte suprema nazionale nel 2018. Infine, alcuni casi sono stati portati dinanzi ad organi internazionali, come la Corte europea dei diritti umani, la Corte di giustizia dell’Unione Europea e alcuni organi di monitoraggio sui diritti umani delle Nazioni unite. Manca ancora, nonostante un continuo dibattito, un contenzioso climatico interstatale, dove entrambe le parti in lite sono stati sovrani.
Conclusioni
Il contenzioso climatico può suscitare diverse considerazioni. Tralasciando osservazioni prettamente giuridiche sull’ammissibilità e l’efficacia delle argomentazioni dei ricorrenti, e opportune riflessioni sul confine tra potere legislativo ed esecutivo da un lato, e potere giudiziario dall’altro, la domanda da porsi ai fini di questo breve articolo sembra essere la seguente: può il contenzioso giuridico costituire uno strumento utile per perseguire la “giustizia climatica”?
Se si considera la questione della giustizia distributiva a livello internazionale, è intuitivo che il contenzioso più utile a tale scopo veda individui che abitano i territori più colpiti dagli impatti del cambiamento climatico portare in giudizio gli stati più inquinanti. Tale contenzioso però è molto difficile che si realizzi, a causa di evidenti ostacoli giuridici (come l’immunità statale dalla giurisdizione civile di altri stati e la limitata applicazione di una giurisdizione “extraterritoriale”).
Se si pensa alla giustizia intergenerazionale, è anche qui chiaro che il contenzioso in sé non può rappresentare lo strumento più adatto per tutelare generazioni future. Nonostante una spiccata creatività giuridica dimostrata dai proponenti e da qualche corte, il contenzioso, per propria natura, tende a rivolgere lo sguardo al passato e a giudicare l’accaduto, più che a regolamentare pro futuro.
Nel complesso, il contenzioso climatico è un “second best”; la via principe per contrastare il cambiamento climatico e affrontare le relative questioni di (in-)giustizia rimane la cooperazione internazionale in ambito multilaterale. Quando, tuttavia, tale cooperazione non riesce o procede troppo a rilento, il contenzioso, promosso da alcuni importanti segmenti della società civile, si presenta come utile strumento di pressione per promuovere politiche climatiche più ambiziose e colmare vuoti di responsabilità.