In occasione delle dichiarazioni dei capi di Stato e di Governo in videoconferenza per l’Assemblea Generale dell’ONU, il 22 settembre, il Presidente Xi Jinping ha assunto un ruolo di primo piano nelle discussioni dell’Assemblea e sui media internazionali. L’anno scorso l’intervento del ministro degli Esteri cinese Wang Yi era sulla centralità del multilateralismo in particolare in ambito commerciale, sottolineando i danni per l’economia globale derivanti dalla spirale di misure tariffarie. Quest’anno Xi - il cui Paese è da molti considerato il responsabile della pandemia da Covid-19, con ricadute negative sulla reputazione internazionale di Pechino – ha invece annunciato l'intenzione di trasformare la Cina in un Paese carbon neutral entro il 2060. L’interesse cinese verso gli impegni ambientali aveva subito una battuta d’arresto negli anni recenti, in particolare dopo l’annuncio del ritiro americano dagli accordi di Parigi e il rallentamento dell’economia nazionale. Di qui i riflettori puntati su Pechino.
La mossa ha stupito l’intera comunità internazionale e si inserisce nel percorso intrapreso dalla leadership cinese nel presentare il Paese al mondo come un responsible stakeholder nella gestione degli affari mondiali, contribuendo alla soluzione dei principali problemi globali. Una mossa che ovviamente non è esente da calcoli prevalentemente interni e di natura geopolitica, in particolare come una via privilegiata per potenziare investimenti sostenibili per il rilancio dell’economia nel post-pandemia e per garantire un posto di leadership per l’industria cinese nei nuovi settori legati alla transizione energetica globale.
La situazione energetica cinese
Per ora non si conoscono i dettagli del piano. Vari economisti e alcuni esperti del settore dubitano peraltro che la Cina riesca a raggiungere tale obiettivo in un periodo relativamente breve, se si considera che oggi è il maggiore Paese responsabile delle emissioni a livello globale, con una quota del 28%, rispetto al 15% degli Stati Uniti, secondo grande inquinatore mondiale. Un quadro più chiaro potrebbe tuttavia venire dal prossimo Piano quinquennale 2021-2025, presentato in questi giorni al Plenum del partito comunista cinese, e da cui emergeranno i trend degli investimenti del prossimo futuro. È possibile che anche in questo documento gli obiettivi saranno ampi e poco dettagliati, in modo da permettere al Partito di avere un margine di flessibilità per decidere gli investimenti necessari nel quadro post-pandemico, anche in base alla situazione della domanda internazionale.
È certo in ogni caso che l’obiettivo della carbon neutrality richieda una trasformazione radicale dell’economia cinese: attualmente le fonti fossili rappresentano l’85% del mix energetico del Paese e le rinnovabili il 15%. La Cina è il maggior consumatore di carbone al mondo, con una quota pari al 50,2%. Una percentuale straordinaria, se si considera che il secondo consumatore è l’India, con l’11,3% sul totale mondiale, cui seguono gli USA con una quota dell’8,3%. In effetti il carbone è ancora fondamentale per l’economia cinese: rappresenta il 58% del totale dei consumi energetici del Paese e il 66% della produzione elettrica. Il consumo di carbone si era ridotto tra il 2013 e il 2017 anche con l’obiettivo di migliorare la qualità dell’aria, ma ha ricominciato a crescere negli anni seguenti in conseguenza delle politiche di stimolo della produzione industriale. La crescita nei consumi di carbone si era bloccata e ridotta nel corso della pandemia da Covid (-25%), con un sensibile miglioramento della qualità dell’aria, ma recenti indagini confermano che nel mese di maggio le emissioni erano già superiori del 4% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente.
Gli investimenti necessari
Uno studio di settembre dell’Università Tsingua prevede investimenti per 15.000 miliardi di dollari al fine di abbandonare il carbone nella produzione energetica entro il 2050, con un aumento sostanziale delle rinnovabili e del nucleare. In tal modo sarebbe possibile, sempre secondo lo studio, raggiungere il target dell’80% dei consumi energetici del Paese da fonti elettriche. Un obiettivo difficile, che richiederebbe una riforma complessiva del mercato elettrico, ma non impossibile, considerata anche la recente vicina equiparazione dei costi di produzione dell’energia elettrica da carbone con quelli da fonti rinnovabili. Altri studi ipotizzano la necessità di investimenti ancora più ingenti: una recente analisi di Bernstein calcola in $6,5 trilioni le risorse necessarie per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.
In ogni caso, il Paese non parte da zero: produce il 30% del totale dell'energia elettrica da fonti rinnovabili installata nel mondo. E' leader nelle tecnologie relative alle energie pulite – tra cui solare ed eolico – ed è il maggior produttore mondiale di auto e bus elettrici. La Cina produce, a livello mondiale, circa il 70% dei pannelli solari e quasi la metà delle turbine eoliche. Costruisce inoltre il 70% delle batterie a ioni di litio e controlla gran parte dell’estrazione delle terre rare necessarie nella filiera dell’elettricità. Inoltre, Pechino potrebbe infine adottare politiche di riforestazione e riduzione di emissioni CO2 prodotta attraverso nuove tecnologie di cattura e stoccaggio del carbonio. Per raggiungere gli obiettivi sarà comunque inevitabile aumentare la capacità installata di energia nucleare, con i relativi rischi di sicurezza e stoccaggio delle scorie.
Notevolmente complesso potrebbe essere “sanificare” la produzione industriale, in particolare nei settori dell’acciaio e del cemento, che richiedono alte temperature di produzione. La sola industria dell’acciaio cinese – che garantisce il 53,3% della produzione mondiale – è responsabile del 15% delle emissioni nazionali di CO2. La soluzione potrà arrivare dall’idrogeno verde, una tecnologia fondamentale per raggiungere gli ambiziosi target. Centrali, per lo sviluppo delle nuove tecnologie nel settore, sono le strategie delle aziende di Stato, tra le quali figura il gigante petrolifero cinese Sinopec, che vanta un fatturato annuo di $314 miliardi e riserve di cassa per $13 miliardi. Dopo l’annuncio di Xi, l’azienda petrolifera, infatti, ha deciso di puntare sull’idrogeno e riallocherà parte delle risorse disponibili dal petrolio su questa promettente tecnologia emergente: investimenti che spazieranno dalla produzione di idrogeno all’installazione di stazioni di ricarica in tutto il Paese. Già la scorsa estate il colosso cinese, che conta 30.000 pompe di rifornimento di benzina in tutta la Cina, aveva costruito le prime 1.000 stazioni ad idrogeno. Questo risulta essere un primo investimento, parte di un più ampio piano del Governo di Pechino, per supportare la ricarica ad idrogeno di almeno un milione di veicoli.
Sebbene la riconversione energetica possa essere tecnicamente possibile, considerata anche la poderosa capacità industriale e tecnologica del gigante asiatico, è necessario prendere in considerazione il considerevole impatto sociale derivante dalla riconversione medesima. Milioni di lavoratori delle industrie del carbone (circa 3 milioni di persone) e dei settori carbon-intensive dovranno essere riconvertiti verso i settori della nuova economia sostenibile. Sarà perciò necessario predisporre una sorta di Just Transition Mechanism per i settori, i territori e i lavoratori maggiormente colpiti dalla transizione energetica, sull’esempio di quanto già ipotizzato nello European Green Deal.
Quali le motivazioni internazionali e geopolitiche
Un piano, quello della carbon neutrality, che potrebbe essere del tutto funzionale agli interessi di potenza della Cina. Raggiungere l’obiettivo delle emissioni zero richiede enormi investimenti che dovranno essere pianificati, non solo all’interno dei confini nazionali. E anche qui la Belt and Road Initiative gioca un ruolo di primaria importanza. Gli investimenti per la “rivoluzione verde cinese” potranno infatti generare una capacità tecnologica, industriale e produttiva tale da favorire l’esportazione di tecnologie, reti e produzione industriale destinate alla generazione energetica in altri Paesi nel mondo. Niente di nuovo, comunque: basti considerare che dei 755 miliardi dollari investiti dalla Cina nella Nuova Via della Seta dal 2013 al 2020, 297 miliardi riguardano prodotti energetici, pari al 39,3% del totale.
Già nel 2017, a dire il vero, la State Grid Corporation of China aveva mosso importanti passi per la costruzione di un sistema nazionale e globale sempre più incentrato sulle risorse energetiche rinnovabili. Il gigante dell’energia cinese si era impegnato in un piano per massicci investimenti in tutto il globo in campo energetico, in particolare nel deserto del Sahara con pannelli fotovoltaici e nei Poli attraverso impianti eolici off-shore. L’obiettivo finale – estremamente impegnativo e forse utopistico - era quello di costruire un mercato integrato dell’energia in cui le nuovi “reti supercritiche” ad alta capacità e bassa dispersione fossero in grado, attraverso interconnessioni tra le diverse reti elettriche nazionali, di trasferire energia da luoghi di produzione a luoghi di consumo, in primis la Cina. Enormi gli investimenti previsti: 50.000 miliardi di dollari in 30 anni per arrivare al 90% di produzione elettrica da fonti rinnovabili entro il 2050. E in questo quadro l’Italia risultava centrale: nel 2014 China State Grid aveva già acquisito una quota del 35% in CDP reti, a sua volta controllante la rete di trasmissione elettrica nazionale, Terna.
La storica decisione cinese, pertanto, sembra non è estranea a considerazioni di natura internazionale. In primo luogo, l’adozione da parte dell’Unione europea del Green New Deal comporterà - a breve - l’introduzione di una carbon border tax, che colpirà i prodotti ad alto contenuto di carbonio importati nell’Unione europea. Si tratta di una misura che danneggerebbe una quota considerevole delle esportazioni cinesi nell’UE (361 miliardi di dollari nel 2019), a meno che Pechino non risulti credibile nella decarbonizzazione progressiva della propria economia. In secondo luogo, viene la possibile evoluzione politica americana. Nel caso in cui le elezioni fossero vinte dal candidato democratico Joe Biden, gli Stati Uniti virerebbero verso politiche ambientali più stringenti, con target molto più ambiziosi per quanto concerne la neutralità climatica nella produzione e nei consumi nazionali. Il candidato democratico ha, infatti, annunciato un piano da 2 trilioni di dollari, l’annullamento del processo di recesso dagli Accordi di Parigi, nonché maggiori incentivi per le energie rinnovabili e le nuove tecnologie pulite.
Non è, quindi, un caso che l’annuncio di Xi e la possibile vittoria democratica alle prossime elezioni americane abbiano innescato un aumento dei valori di borsa delle principali aziende nel settore energetico rinnovabile. Le azioni nell’indice S&P Global Clean Tech sono aumentate del 71% dall’inizio dell’anno e del 22% dal discorso di Xi del 22 settembre, mentre le azioni dell’azienda cinese di turbine eoliche Xinjiang Goldwind – il terzo maggior produttore al mondo – hanno registrato un incremento del 46% dal 22 settembre. Infine, da inizio anno, anche le azioni dell’azienda cinese produttrice di pannelli fotovoltaici, Longi Green Energy Technology, hanno più che triplicato il loro valore, con una una capitalizzazione di 38 miliardi di dollari. Secondo Citi, infatti, le aziende solari ed eoliche cinesi saranno i maggiori beneficiari dell’annuncio del presidente cinese; JP Morgan, inoltre, prevede nei prossimi 12-18 mesi una forte accelerazione dei progetti fotovoltaici, solari ed eolici, con ulteriori benefici per la capitalizzazione delle imprese del settore.
La strada ormai è tracciata e il governo cinese sembra abbia ben compreso le potenzialità economiche e sociali insite negli investimenti della transizione energetica. Aria più pulita significa maggiore salute dei propri cittadini e, di conseguenza, maggior consenso interno e risparmio nei costi sociali. Pechino ha, inoltre, accolto con favore il recente annuncio del Giappone di voler divenire carbon neutral entro il 2050, dichiarando di voler intraprendere una cooperazione fruttuosa e un coordinamento con Tokyo per un’azione sinergica nella riduzione delle emissioni. Infine, la Corea del Sud ha da pochi giorni annunciato che seguirà Cina e Giappone nell'obiettivo di conseguire la neutralità climatica entro il 2050, preannunciando investimenti per $7 miliardi all'interno del più ampio piano di stimolo fiscale per contrastare gli effetti recessivi della pandemia. La lista dei Paesi impegnati nella difesa climatica del Pianeta si allarga. Non resta che attendere l’esito della partita americana.