Nel dibattito delle ultime settimane sulla pandemia di COVID-19 c’è un’ipotesi che continua a riemergere, ipotesi cui non siamo ancora stati in grado di rispondere con dati e numeri: e se fossimo diventati più bravi a curare le persone che contraggono l’infezione?
In effetti, a guardare i numeri grezzi la letalità di COVID-19 sembra crollata: in Italia è passata dal 14,7% di marzo-aprile all’1,3% di inizio settembre. Se leggete questo DataVirus da qualche tempo saprete già che la realtà è ben diversa: come abbiamo spiegato diverse volte, l’ultima solo qualche settimana fa, c’è grande differenza tra la letalità apparente e la letalità plausibile del virus. È tuttavia normale attendersi dei progressi nelle cure delle persone infette, in particolare in periodi in cui il virus circola di meno e c’è dunque più probabilità di individuare le infezioni per tempo e di dedicare più ore-persona ai singoli pazienti.
Il grafico qui sopra mostra proprio questo: un miglioramento della capacità di cura nel periodo di “calma apparente” a seguito della prima ondata. Ma, purtroppo, indica che con l’aggravarsi dell’andamento dell’epidemia, tra agosto e oggi, anche le cure sembrano essere tornate a essere meno efficaci. Per capire come facciamo a dedurlo, partiamo dall’inizio.
Innanzitutto, muoviamo da un assunto: se le cure migliorano, dovrebbero migliorare in maniera proporzionalmente maggiore per le persone meno anziane, le quali dovrebbero dunque avere maggiori probabilità di sopravvivenza rispetto allo status quo ante. È qualcosa di tanto ovvio che di ricerche in merito all’effetto proporzionale delle cure in base all’età del paziente se ne trovano poche, se non per specifiche sindromi. E proprio questo differenziale del beneficio di una cura per classi d’età ci fornisce la direzione verso cui guardare: a come vari nel tempo la distribuzione per classi d’età delle persone decedute con COVID-19. È sufficiente fare un ulteriore assunto (comunque non banale): che nelle diverse fasi dell’epidemia il contagio sia distribuito in maniera simile nella popolazione. La realtà probabilmente è diversa: è cioè plausibile attendersi che gli anziani siano oggi maggiormente isolati rispetto alla prima ondata epidemica di febbraio-maggio scorsi. Tuttavia, per le cassi d’età più avanzate (dai sessant’anni in su) risulta difficile sostenere che un sessantenne oggi sia più isolato rispetto a un settantenne o a un ottantenne, e dunque ci pare possibile ipotizzare che il confronto regga.
La figura qui sopra è ricavata calcolando la distribuzione dei decessi per età in tre fasi dell’epidemia in Italia. Queste tre fasi sono la prima ondata (tra febbraio e maggio), un periodo di calma apparente in cui il contagio risultava fortemente contenuto (tra giugno e luglio) e la seconda ondata, il periodo di ripresa del contagio che parte da inizio agosto e arriva ai giorni nostri. Abbiamo scelto di rappresentare solo le classi d’età dai 40 anni in su, perché per le classi più giovani i decessi sono una quantità del tutto trascurabile.
In tutte e tre le fasi si può notare che, come da attese, i decessi crescono con l’età, concentrandosi nella fascia 80-89 anni. Il crollo dei decessi tra pazienti con 90 anni o più non deve trarre in inganno: è dovuto soprattutto al fatto che il numero di abitanti italiani che quest’anno appartengono a questa fascia d’età è di sole 775.000 persone, mentre gli 80-89enni sono 3,6 milioni (oltre quattro volte tanto) e i 70-79enni sono 6 milioni (quasi otto volte tanto).
È dunque necessario correggere la distribuzione dei decessi per l’incidenza di questi decessi sul totale della popolazione per fascia d’età. Una volta fatto, otteniamo il grafico che apre questo articolo, in alto. Dal grafico appare evidente come i decessi risultino concentrati nelle fasce d’età più elevate, con un andamento esponenziale che fa sì che oltre la metà dei decessi (per incidenza) riguardi persone ultranovantenni.
A interessarci oggi non è tanto quest’ultima distribuzione, ma la sua variazione nel tempo. Se davvero osservassimo un miglioramento nella cura dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2, ci attenderemmo che scendano i decessi tra le persone più “giovani”, e che salgano di riflesso i decessi tra quelle più anziane. Sono proprio le persone “anziane ma non troppo”, infatti, a essere le principali beneficiarie delle migliori cure. E questo è proprio ciò che accade tra la prima ondata e il periodo di calma apparente: il numero di 70-79enni che muore con il virus, dopo aver controllato per la preponderanza di questa fascia d’età rispetto al totale della popolazione generale italiana, si dimezza dall’11% al 5%. Anche i decessi nella fascia 80-89 anni si contraggono di circa un quarto, scendendo dal 28% al 21%. Questa discesa dei decessi nelle fasce d’età meno anziane va a scapito della rapida risalita (relativa) dei decessi tra gli ultranovantenni, che passa dal 56% al 71%. Sembrerebbe una buona evidenza del fatto che, in costanza di decessi tra i novantenni, la malattia appare nettamente più “curabile” (ovvero, meno letale) tra le persone meno anziane.
Purtroppo, dall’inizio della seconda ondata questa tendenza si è invertita. Tra il periodo di calma apparente e quello della seconda ondata, infatti, osserviamo una contrazione dell’incidenza di mortalità attribuibile agli ultranovantenni (dal 71% al 60%), e una risalita dei decessi in tutte e tre le fasce d’età 60-69, 70-79 e 80-89 anni. In particolare, la risalita porta l’incidenza dei decessi nelle tre fasce d’età a livelli comparabili a quelli della prima ondata, anche se sempre leggermente inferiori: da 3,4% nella prima ondata a 3,1% nella seconda per i 50-59enni; da 11% a 9% per i 60-69enni; e da 28% a 27% per i 70-79enni.
In conclusione il trend verso il miglioramento delle cure, che sembrava evidente nel passaggio dalla prima ondata al periodo di calma apparente, sembra oggi essersi invertito, tanto che la distribuzione della mortalità del virus per classi di età delle ultime settimane assomiglia molto a quella della prima fase. Delle due, l’una: o siamo diventati molto più bravi a curare (o isolare?) gli ultranovantenni rispetto a tutte le altre classi di anziani, oppure i progressi nelle cure hanno fatto un passo indietro con il (pur lento) aggravarsi della diffusione dell’infezione in Italia. Nel secondo caso, ciò indicherebbe soltanto una cosa: che questo autunno il virus è pronto a colpirci in maniera simile a quanto ha fatto nel marzo scorso.