L’onda lunga degli anni Novanta – che per molti, in Russia, sono stati un’era di anarchia e di umiliante lotta per la sopravvivenza – si è esaurita. Le celebrazioni nel 2015 del settantennale della vittoria sovietica sulla Germania nazista, caratterizzate da una massiccia mobilitazione di memorabilia staliniani, hanno in realtà marcato la fine della Russia “post-sovietica”. La Federazione Russa è sempre meno definibile al negativo, in termini di ciò che non è più. Al contrario, un’eccitata maggioranza si è coagulata intorno a un’idea di ciò che la Russia vuole essere in futuro. L’assunzione un ruolo spregiudicatamente interventista sulla ribalta geopolitica è parte di questa riorganizzazione dell’autopercezione russa.
Il nuovo corso è segnato dall’emergere di una precisa narrazione sulla civiltà russa (rossiiskaya, cioè sopra-etnica), le sue specificità, e il suo ruolo nell’arena internazionale. Elementi chiave di questa narrazione sono la convinzione che la Russia abbia un diritto, sancito dalla sua stessa geografia, di dettare le regole del gioco politico internazionale – in particolare in quelle aree tradizionalmente considerate come “proprie” a livello civilizzazionale – e un patriottismo solare, organicista (ma non etnicista), marziale.
Parlare di politica in Russia, oggi, vuol dire soprattutto parlare di geopolitica – il che rende difficile, forse inutile, considerare la politica interna dell’amministrazione Putin separatamente dalla politica estera. Nell’immaginario di una parte consistente dell’opinione pubblica russa, la percezione dei confini nazionali e quella dei confini degli interessi nazionali è confusa, sfumata.
Osserviamo il caso ucraino. Sebbene il Cremlino si guardi dal trasformare il suo ruolo nella crisi in Ucraina Orientale in un intervento bellico convenzionale, gli avvenimenti nella ex-repubblica sorella sono trattati come questione domestica. L’esistenza di uno scarto tra confini nazionali e confini (percepiti) degli interessi nazionali amplifica l’ipotesi di complotto contro la Russia (in quanto stato, in quanto comunità, e in quanto idea). Secondo una versione largamente condivisa dall’opinione pubblica, l’Ucraina e il suo fragile governo (“giunta fascista”) sarebbero l’incarnazione di una più vasta strategia volta a impedire alla Russia di “risollevarsi in piedi”.
Le sanzioni comminate alla Russia sono quindi state intese da larghi settori dell’opinione pubblica come un malevolo attacco, da parte di una civiltà antagonista (quella occidentale), al faticosamente ritrovato benessere dei cittadini russi anziché come un giustificato (o quantomeno comprensibile) strumento di pressione politica.
Principali artefici del disegno antirusso sarebbero la NATO e il governo degli Stati Uniti (“Obama malnato, giù le mani dalle nostre pensioni!”). L’Europa parteciperebbe all’attacco contro la Russia in misura minore, e in quanto subordinata all’egemonia statunitense. La raffigurazione collettiva dell’Europa è bipolare: essa viene percepita tanto come un modello di progresso quanto come un ricettacolo di vizio e decrepitezza. La decadenza europea troverebbe espressione soprattutto nelle sue scelte politiche in materia di diritti civili. Il veemente rigetto dei valori liberali in materia di libertà civili, soprattutto nei confronti delle minoranze LGBT, è quindi per molti cittadini russi un affare geopolitico – espressione gelosa di appartenenza civilizzazionale e lealtà patriottica – più ancora che una manifestazione di generica omofobia o semplice conservatorismo culturale.
L’intervento in Siria ha offerto al governo russo una serie di opportunità insieme a qualche rischio. Nel decennio scorso, la cornice della lotta globale contro il terrorismo garantì a Vladimir Putin il mandato di agire recisamente contro i separatisti caucasici. Oggi, la comparsa di uno stato teocratico jihadista nel Mashriq ha coagulato la rete islamista armata globale, precedentemente policentrica, sottraendo risorse ai separatisti del Caucaso e spostando il problema della lotta al terrorismo dal piano della sicurezza domestica a quello geostrategico.
Il capitolo siriano della lotta “santa” dell’Occidente contro il terrorismo offre alla Russia una opportunità per riasserire i propri interessi nel Mediterraneo. Questa volta, se il nemico è Daesh, il vero avversario geopolitico è l’Occidente. Nei social media del paese eurasiatico, il sodalizio russo-siriano è narrato volentieri come uno sforzo comune contro la rapace egemonia americana.
La decisione di intervenire in Siria porta però con sé il rischio di incrinare i rapporti con la numerosa, sebbene relativamente quietista sul piano politico, componente musulmana di Russia. Per il momento, comunque, l’attitudine prevalente in questo gruppo sembra quella di una preoccupata neutralità.
Infine, la crisi turca e la sua risoluzione hanno dimostrato il potenziale emozionale del dispositivo patriottico. Parte dell’opinione pubblica ha accolto con sarcasmo la reazione nervosissima del Cremlino all’abbattimento del jet russo in suolo siriano – l’acrimonia tra Putin ed Erdoğan è stata descritta da alcuni come l’incontro di “due solitudini”. Una maggioranza, comunque, ha reagito con compattezza, dimostrandosi capace di sviluppare un odio feroce verso il nuovo antagonista, tanto più impressionante perché retroattivo e universale (“i turchi – tutti – ci sono nemici, ci sono sempre stati nemici”), ma pronto a dissolversi a crisi rientrata.
Nonostante la diversità degli scenari geopolitici in cui il Cremlino si muove, risulta evidente che la narrativa di orgoglio civilizzazionale divenuta egemonica in Russia si è dimostrata, sin qui, capace di offrire senso e legittimità alle sfide militari e strategiche in cui il paese eurasiatico si è lanciato. L’antagonismo con l’Occidente e il nuovo protagonismo del Cremlino sullo scacchiere internazionale sono stati posizionati in un paradigma ideale e valoriale differente da quello della Guerra Fredda, ma analogamente comprensibile e rassicurante agli occhi di buona parte dell’opinione pubblica russa.
Le elezioni del 18 settembre, nonostante un ulteriore calo dell’affluenza che racconta la disillusione di molti nei confronti dei riti della “democrazia sovrana”, hanno dimostrato che questa narrativa geopolitica affascina ancora un grande numero di russi. I partiti che hanno intercettato la maggioranza dei voti sono anche i principali propugnatori del patriottismo civilizzazionale, seppure con sfumature diverse – dal pacchiano nazional-imperialismo del LDPR alle visioni staliniano-eurasiste del Partito Comunista Russo, fino al suadente populismo di quella sofisticata macchina da consenso che è il partito di governo Russia Unita.
Matteo Benussi, PhD Candidate, University of Cambridge