“Recupero delle province ribelli e nuovo vigore internazionale”. Se la politica estera seguisse davvero le regole del Risiko, potremmo dire che la carta nelle mani di Putin preveda proprio questo obiettivo. Dopo la Crimea quindi, quali altre carte pretenderà di giocare Putin nell’ottica di vincere la sua partita a Risiko? Al di là delle possibili manovre in Europa orientale – in Transnistria per esempio – l’obiettivo di Mosca è di tornare a svolgere il ruolo esclusivo di antitesi agli Stati Uniti sullo scacchiere internazionale. Esclusivo perché il suo desiderio è di ricostituire un mondo bipolare – Mosca versus Washington – in cui qualsiasi altro soggetto internazionale (Europa, Cina o India che sia) si limiti a giocare da gregario. C’è chi parla per questo di ritorno alla guerra fredda. Altri, forse in maniera più ragionata, declinano la strategia del Cremlino in un recupero delle glorie sovietiche, ma anche nel risveglio delle angosce già nutrite in epoca zarista: psicosi da accerchiamento, scali marittimi amici in mari caldi, diplomazia aggressiva come placebo per l’instabilità politico-economica interna, nell’ottica quindi di mantenersi amica l’opinione pubblica nazionale.
Il recente comportamento di Putin è riconducibile a tanti elementi che fanno parte strutturalmente della politica estera russa. Per questo la crisi ucraina va osservata da una prospettiva di grande respiro. Va interpretata come l’incipit di ulteriori potenziali mosse che il presidente russo vorrebbe effettuare altrove. In primis in Medio Oriente, dove Mosca da anni sta cercando di ricostruire le relazioni che l’Urss aveva pazientemente intessuto e che, dopo il 1991, si erano sfaldate. I nuovi corrieri del Cremlino oggi sono oligarchi del petrolio, venditori di armi e tecnici nucleari. Professionisti di una diplomazia parallela, spregiudicati nel curare l’immagine della Russia non tanto nei palazzi degli emiri, bensì sui mercati finanziari.
Il Medio Oriente potrebbe essere sì il prossimo quadrante d'intervento di Putin. Un po’ per ricalcare i passi dei suoi predecessori. Un po’ per questioni geografiche, quindi naturali: oltre il Mar Nero, si sbocca subito nel Mediterraneo, dove Mosca è già impegnata con la crisi siriana. Infine per andare a intorbidire le acque di un mondo in cui l’Amministrazione Obama non è riuscita a ottenere il risultato sperato. Putin starebbe cercando d'introdursi lì dove Obama ha fallito. Visto così, il passaggio Ucraina-Medio Oriente è quasi automatico.
Il mondo arabo-islamico però sta affrontando una fase tutt’altro che favorevole per poter accogliere le ambizioni russe. Le primavere arabe hanno sconvolto i piani sia di coloro che in Medio Oriente si credevano consolidati (Europa e Stati Uniti), sia dei nuovi arrivati (Cina), sia ancora di chi sognava nuovi affari e il recupero delle vecchie amicizie, la Russia appunto. Fino a qualche anno fa, Mosca avrebbe potuto sperare in un rapporto fiduciario con l’Iran, la Libia, la Siria. Oltre che nelle buone relazioni commerciali con molti emiri del Golfo.
Oggi di quella Russia in Medio Oriente non è rimasto praticamente nulla. Gheddafi è caduto. Come pure Mubarak. Ed entrambi avevano una linea diretta con Mosca. I paesi del Golfo si sono schierati palesemente contro Assad in Siria. E quindi contro Putin. Mentre lo stesso Iran, al tempo dipendente dalle forniture di uranio e dalle consulenza ingegneristico-nucleare made in Russia, è difficile che oggi possa essere classificato come fidato amico del Cremlino.
D’altra parte e proprio a Teheran che Putin si può giocare l’unica mossa mediorientale. Il secondo round dei colloqui di Vienna sul nucleare iraniano, con un risultato insoddisfacente per tutti. Il meeting si è arenato sullo scoglio del reattore di Arak. Il 5+1, composto dai Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti) e dalla Germania, vuole che il reattore, quasi completato, sia spento o convertito in un impianto che produca meno plutonio. La delegazione iraniana ha invece sottolineato che uno stop all’impianto è «fuori discussione».
Lo scorso anno, nelle ultime fasi del primo round viennese, Mosca aveva preferito assumere un atteggiamento di osservatore attivo, quasi benedicendo dall’alto la ripresa dei rapporti tra Occidente (leggasi Stati Uniti e Regno Unito) e Iran. Così facendo si era nuovamente allineato al resto del 5+1, ricompattandolo e garantendo la prosecuzione delle trattative. Oggi, sulla scia della crisi ucraina potrebbe invertire il suo atteggiamento e versare benzina sul fuoco. Vale a dire suscitare nella frangia estremista degli Ayatollah i più accaniti sentimenti anti-americani. Potrebbe sostenere la linea dura della Guida suprema, Ali Khamenei, a svantaggio di quella dialoghista del presidente Rouhani. Ancora più concretamente potrebbe spingere per l’aumento delle centrifughe attive ad Arak, promuovendo di conseguenza un nucleare iraniano non solo civile, ma ispirato da ambizioni strategico-militari.
Tuttavia i giocatori di Risiko, prima di lanciare i dadi, formulano ipotesi e dichiarano in anticipo le mosse che stanno per compiere. Putin è troppo scaltro per non rendersi conto che favorire l’atomica per Teheran significherebbe poi gestire una nuova potenza nucleare. Peraltro non lontana dalle proprie frontiere.
Ecco perché la mossa in Crimea espone il Cremlino a ripercussioni più pericolose di quanto si possa immaginare. In questi giorni, il ministro degli Esteri britannico, William Hague, è intervenuto duramente sui giornali d’oltremanica, denunciando le scelte di Mosca, gravide di un inevitabile futuro isolamento. Le sue parole hanno trovato eco anche sulla stampa araba. E questo non è un caso. Nel golfo, nei prossimi giorni, è atteso Barack Obama. È evidente che Londra stia arando il terreno per Washington. E al tempo abbia avvelenato i pozzi per gli eventuali corrieri dello zar.