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DIGITAL ASSETS

Criptovalute: quattro vantaggi per ripartire

Luca Fantacci
09 Dicembre 2022

Il 2022 è stato un annus horribilis per le cosiddette criptovalute. Dai massimi di novembre 2021, il prezzo di Bitcoin è crollato di oltre il 75% e il valore complessivo dei cryptoassets, che allora aveva sfiorato i 3.000 miliardi di dollari, è sceso a poco più di 800 miliardi, ossia attorno ai livelli di cinque anni fa.

La perdita di valore è solo il sintomo di mali più profondi. Gli ultimi dodici mesi sono stati funestati da una serie di débâcle (di cui è già stato dato conto in un precedente contributo): il crollo della stablecoin algoritmica Terra-Luna, il fallimento della piattaforma di prestiti Celsius e da ultimo il crollo del mercato telematico FTX. Ci si comincia a chiedere, come in un recente articolo di apertura dell’Economist: è la fine delle crypto?

A ben vedere, ci sono buoni motivi per argomentare esattamente il contrario: non è l’inizio della fine, bensì la fine dell’inizio. Con lo sgonfiamento della bolla e gli scandali che l’hanno provocato, a finire è forse l’adolescenza turbolenta ed euforica delle crypto. La fine di quello che, per pudore, si è voluto ammantare con l’espressione gergale americana “hype”. In italiano, più francamente: illusione. L’inverno delle crypto segna la fine delle illusioni fatte balenare da bitcoin fin dalla sua invenzione nel 2008.

 

La promessa (mancata) di Bitcoin e delle altre

La prima delle promesse disattese da Bitcoin è proprio quella che dà il titolo al white paper con cui fu presentato al mondo: “un sistema di contante elettronico fra pari”. L’idea era di creare una moneta sulla base di un protocollo informatico, senza l’intervento della banca centrale o del sistema bancario privato. Il proposito poteva apparire plausibile, nel pieno della crisi finanziaria globale che aveva minato la fiducia negli intermediari e nei regolatori. Ma Bitcoin non si è certo rivelata all’altezza del compito. La sua estrema volatilità la rende totalmente inadatta a servire da moneta. Perciò opportunamente si ricorda che le cosiddette criptovalute non sono affatto valute (soprattutto da parte di banchieri centrali che giustamente rivendicano qualche competenza in materia).

La seconda prospettiva aperta da Bitcoin, pure evocata nel titolo del white paper, è la creazione di un sistema monetario e finanziario “P2P”, fra pari, capace di mettere direttamente in comunicazione gli utenti senza bisogno di banche o istituti di pagamento o compagnie di carte di credito. È l’orizzonte dischiuso dalla tecnologia a registro distribuito (DLT, distributed ledger technology) che ha introdotto Bitcoin: la disintermediazione. Anche in questo caso, per una buona causa: l’abbattimento delle rendite, la riduzione dei costi, la liberazione dal controllo degli oligopoli. Di nuovo, però, si è trattato di una rivoluzione mancata. Il mondo delle crypto ha visto fin dall’inizio il proliferare di una pletora di nuovi intermediari,  che offrono servizi di custodia, trasferimento, prestito, scambio e che operano perlopiù al di fuori di ogni regolamentazione e di ogni vigilanza. A danno degli utenti, come mostra il caso della piattaforma di scambi FTX che, in mancanza di qualunque forma di rendicontazione o di sorveglianza, pare abbia distratto i fondi dei clienti per coprire le perdite del fondatore, Sam Bankman-Fried, sui propri investimenti speculativi. 

I puristi delle crypto osservano che FTX ha fallito proprio perché era un sistema centralizzato, che lasciava spazio alle debolezze umane (bene incarnate dall’enfant prodige Sam e dallo stuolo di investitori istituzionali e di regolatori che ne hanno subito il fascino). Chi sposa la filosofia libertaria della DLT sostiene che andrebbe utilizzata proprio per costruire sistemi decentrati, trasparenti, automatizzati, strutturalmente immuni dall’errore umano. Anche questo approccio, tuttavia, non ha sempre dato grande prova di sé. Terra era una stablecoin algoritmica, disegnata per mantenere il valore ancorato al dollaro grazie ai meccanismi iscritti nel suo protocollo informatico, senza lasciare alcun margine di intervento alla discrezionalità di un gestore: ma, dopo aver “battuto moneta” per un controvalore di 60 miliardi di dollari, riuscendo a mantenere la parità col dollaro, la macchina si è inceppata e non è rimasto nulla.

L’ultima promessa di Bitcoin che sembrava poter resistere era quella di poter rappresentare una forma di “oro digitale”. In effetti, il miracolo tecnologico della blockchain è proprio quello di consentire, per la prima volta, la creazione di un oggetto digitale unico, non replicabile e perciò scarso. Il limite al numero massimo di Bitcoin, fissato preventivamente e irrevocabilmente a 21 milioni, era ritenuto una garanzia contro l’inflazione. Mentre le banche centrali emettevano denaro a profusione attraverso politiche monetarie ultra-espansive, inventandosi il quantitative easing e i tassi d’interesse negativi, Bitcoin si presentava come una moneta sicura, al riparo da ogni tentazione inflazionistica. Oggi anche questa illusione si è infranta. Nell’ultimo anno, in effetti, confermando gli infausti presagi dei primi fautori delle crypto, l’inflazione è tornata a livelli che non si vedevano da decenni; ma, mentre l’euro perdeva il 10% del suo potere d’acquisto, non è stato certo Bitcoin ad apparire come bene rifugio, dal momento che ha perso oltre il 75% del suo valore nello stesso lasso di tempo.

 

Non gettare il bambino con l’acqua sporca

Che cosa resta, dopo il tramonto delle illusioni? Non poco, a dispetto di quanto potrebbe sembrare. Bitcoin non è un fuoco di paglia. Anche se dovesse sparire domani (e non si può escludere), lascerebbe un’eredità importante.

Innanzitutto, resta la questione di fondo da cui l’intero movimento delle criptoattività prende le mosse: il sistema monetario non funziona. Il denaro è sempre troppo o troppo poco, le banche centrali faticano a tenere sotto controllo la dinamica dei prezzi, l’inflazione è sempre più alta o più bassa del target, il denaro non arriva dove serve, il valore non si distribuisce in modo equo. Certo, le criptovalute sono ben lontane dall’offrire una risposta al problema: non solo sono estremamente instabili, e perciò inadatte a servire da moneta, ma sono distribuite in modo ancora più disuguale della ricchezza tradizionale. Tuttavia, la tecnologia sottostante offre l’opportunità di creare un sistema di scambi, non soltanto più efficiente, ma più giusto e inclusivo.

Bitcoin lascia dunque, oltre che una domanda, anche l’abbozzo di una risposta. Finita l’euforia per le criptoattività, restano le potenzialità concrete della blockchain. Le quattro illusioni ingenerate dalle crypto sono più che compensate da altrettanti vantaggi della tecnologia sottostante.

Innanzitutto, la tracciabilità. È vero che le criptovalute sono utilizzate per attività illegali. È altrettanto vero, però, che la DLT è, appunto, un registro pubblico, accessibile a chiunque, che rende completamente trasparenti e leggibili tutte le transazioni, sia pur consentendo alle controparti di celarsi dietro uno pseudonimo. Tuttavia, in diverse occasioni le autorità giudiziarie, utilizzando sistemi sofisticati di analisi basati su intelligenza artificiale e machine learning, hanno mostrato di poter risalire all’identità di chi ha utilizzato la blockchain per attività illecite.

Secondo e più importante vantaggio: la proprietà del dato. La DLT consente di gestire dati, senza doverli cedere a un’autorità centrale. Non è solo una questione di tutela della riservatezza. Nell’era digitale, del web 2.0, dei social network, i dati sono chiavi d’accesso a servizi per gli utenti e sono strumento di potere e di controllo da parte di chi li raccoglie. La DLT promette un web 3.0 libero da concentrazioni oligopolistiche, aperto alla competizione, più orizzontale, inclusivo e democratico.

Terzo: inclusività. La DLT stessa, essendo un registro condiviso da una pluralità di soggetti, consente di strutturare nuove forme di governance partecipativa, in cui il potere che deriva dalla detenzione dei dati non è concentrato nelle mani di un unico soggetto pubblico o privato.

Quarto: programmabilità. Nella forma più evoluta inaugurata da Ethereum, la DLT registra non solo dati, ma anche programmi informatici, consentendo l’esecuzione automatica di operazioni al sopraggiungere di determinati eventi predefiniti (attraverso i c.d. smart contracts).

 

In cerca di una regolamentazione

Si capisce perché oggi assai spesso si dica che il buono delle crypto è la blockchain. Finita la speculazione, resta la tecnologia sottostante. Tuttavia, la questione è un po’ più complessa. Le crypto non sono soltanto una delle infinite possibili applicazioni della blockchain. Sono anche il carburante che la fa funzionare. Niente crypto senza blockchain e viceversa. Perciò è fondamentale che si dedichi più importanza a una questione che finora è stata indebitamente trascurata: se è vero che possiamo definire le crypto come rappresentazioni digitali di valore (come fa Bankitalia), che cosa dà alle crypto il loro valore?

La risposta non è ovvia. Non è una questione tecnica, né giuridica, ma economica. Per gli economisti classici, la teoria del valore era il fondamento della scienza economica. E la teoria del valore insegnava che il valore di un bene non dipende unicamente dalla sua scarsità, ma anche dalla sua utilità. Per sapere quanto vale una criptoattività, occorre chiedersi che cosa può fare. Questa è la logica in cui si muovono le iniziative legislative in materia, a cominciare da FINMA, l’autorità di regolazione dei mercati finanziari in Svizzera. Se sono usati come mezzo di pagamento (payment tokens), alla stregua della moneta ufficiale, dovranno assicurare adeguata copertura. Se i tokens sono usati per incorporare attività finanziarie (security tokens), saranno soggetti alla normativa vigente in materia di titoli negoziati sul mercato. Se sono usati come voucher per accedere a beni e servizi offerti dall’emittente (utility tokens), dovranno offrire adeguate garanzie sulla disponibilità dei beni.

Pure l’Unione Europea è in procinto di dotarsi di una regolamentazione estremamente articolata in materia: in analogia con quanto già anticipato dall’autorità finanziaria elvetica, anche la MiCaR distingue le criptoattività sulla base del loro uso. È un passo nella giusta direzione, anche se lascia fuori, come attività speculative prive di valore intrinseco, quelle che hanno la capitalizzazione maggiore, a cominciare da Bitcoin. Forse sarebbe più opportuno considerare le crypto native delle principali blockchain (come Bitcoin, Ether di Ethereum o Algo di Algorand) alla stregua di utility token, dal momento che servono per far funzionare la DLT e, dunque, per beneficiare dei servizi che essa offre.

Finora, si è pensato che fosse possibile lasciare la determinazione del valore delle crypto a un mercato deregolamentato. Ora bisogna evitare di cadere nell’estremo opposto di volerla affidare a un regime di regolamentazione centralizzato. Né lo Stato né il mercato possono risolvere. Occorrono nuove forme di partnership pubblico-privato. Il lavoro in questa direzione è appena cominciato.

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Geoeconomia digital assets criptovalute
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AUTORI

Luca Fantacci
Università Bocconi e UNIMI

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