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Commentary
Crisi ucraina: per Obama un puzzle ancora da completare
07 aprile 2014

Quali effetti ha avuto, sul sistema delle relazioni ‘triangolari’ fra Stati Uniti, Europa e Russia, la visita che Barack Obama ha compiuto nel Vecchio continente lo scorso 24-27 marzo? Al di là delle photo opportunities, che dovrebbero concorrere a rilanciare un figura presidenziale apparsa, negli ultimi mesi, un po’ appannata, gli incontri dell’Aja, di Bruxelles e di Roma hanno prodotto esiti in larga parte prevedibili. Come anticipato, il dossier ucraino ha tenuto banco, date anche le divergenze di vedute che, in maniera più o meno velata, avevano caratterizzato, nelle settimane precedenti, l’approccio dei partner transatlantici alla questione. In questa prospettiva, l’‘espulsione’ di Mosca dal “club” del G8 è stata da più parti presentata come un segno di ritrovata unità. La conferma dell’impegno dell’Alleanza Atlantica a garantire la sicurezza delle proprie frontiere orientali è stata interpretata come un altro segnale in questa direzione, anche se la sua portata appare ridimensionata dalla posizione più compatta espressa dalla NATO di fronte all’escalation della crisi e, soprattutto, al suo allargamento alla Crimea.

Piuttosto che sulla parte “pubblica” della visita del presidente, appare quindi opportuno concentrarsi su quella che i riflettori hanno illuminato meno. L’agenda presidenziale era ampia e ricca, e solo in parte può essere ricondotta alla “semplice” questione ucraina. Alla luce di quelli che sono gli appuntamenti più o meno imminenti, gli incontri di Obama con i vertici dell’Alleanza Atlantica e delle istituzioni europee sono riusciti a comporre le tensioni esistenti e a rilanciare un dialogo che – dopo le aspettative (forse eccessive) sollevate dall’annuncio, lo scorso anno, dell’avvio dei negoziati per l’istituzione di un’area transatlantica di libero scambio (TTIP) – sembra essersi incagliato sia sul piano politico, sia su quello economico? È con riferimento a questi ambiti, più che a quello contin-gente delle relazioni con la Russia, che appare opportuno inquadrare il tour del presidente statunitense e valutare la sue ricadute. E, a questo livello, gli esiti degli incontri di Barack Obama con i suoi interlocutori appaiono un po’ meno chiari di quanto la convergenza di vedute sulla questione ucraina potrebbe suggerire.

Fra questi ambiti, due rivestono particolare importanza. Il primo riguarda la scelta del nuovo segretario generale della NATO. La designazione del norvegese Jens Stoltenberg ha aperto, nei fatti, l’era post-Rasmussen, anche se il suo insediamento avverrà solo dopo il vertice di South Wales del prossimo settembre. La scelta di un altro candidato “nordico” (e di un paese non membro dell’UE) ha però sollevato qualche perplessità, in particolare riguardo al rischio che l’Alleanza possa concentrare troppo la propria attenzione sullo scacchiere centro ed est-europeo a scapito di quello mediterraneo. Il secondo ambito è quello dei rapporti Stati Uniti/Unione Europea. Qui, l’elezione del nuovo Parlamento e la nomina della nuova Commissione rappresentano un’incognita importante. Gli USA hanno sempre vissuto con disagio il rapporto con l’Europa, invitata da una parte ad assumere un maggior peso internazionale, dall’altra, anche per tale ragione, identificata come un concorrente potenzialmente pericoloso o, nella migliore delle ipotesi, come un’inutile duplicazione della struttura politica e militare NATO.

Entrambi questi elementi sono destinati ad avere ricadute più o meno dirette sul sistema delle relazioni con la Russia. Le autorità di Mosca hanno recentemente rimarcato il pesante deterioramento dei rapporti con l’Alleanza Atlantica e hanno parlato esplicitamente di un ritorno alla situazione dell’agosto 2008, all’epoca della crisi georgiana. A conferma di ciò, il Consiglio dei ministri degli Esteri dell’Alleanza, durante la sua riunione dell’1-2 aprile scorso, oltre a condannare con toni particolarmente duri «l’illegale intervento militare [della Russia] in Ucraina» e «la violazione da parte della Russia della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina», ha accusato Mosca di avere «violato il diritto internazionale e agito in contraddizione con i principi e gli impegni assunti con lo Euro-Atlantic Partnership Council Basic Document, il NATO-Russia Founding Act, e la Dichiarazione di Roma», e le ha imputato di avere rotto in maniera grave «la fiducia reciproca su cui si fonda la cooperazione fra le parti», votando per la sospensione di tutte le attività di cooperazione bilaterale, sia in campo civile, sia militare.

È tuttavia improbabile che, dal punto di vista dell’Alleanza, le cose possano evolvere molto oltre questo punto, almeno escludendo la (remota) eventualità di una degenerazione della situazione con l’intervento diretto di forze russe sul suolo ucraino. Non a caso, lo stesso Consiglio Atlantico ha lasciato aperta la possibilità, per il NATO-Russia Council, di portare avanti un dialogo «a livello di ambasciatori e superiore «per permettere uno scambio di vedute, in primo luogo riguardo alla crisi [in corso]». Quello negoziale continua, infatti, a rimanere il canale privilegiato in vista di una soluzione. L’assenza di riferimenti alla Crimea nel comunicato finale dell’incontro Kerry-Lavorv del 30 marzo è indicativa di come Washington possa essere disposta – entro certi limiti – ad andare incontro alle esigenze russe, nella misura in cui queste non risultino distruttive della sovranità ucraina. Anche la collaborazione bilaterale fra Stati Uniti e Russia (per esempio, nel campo della non proliferazione) non è stata interrotta dalle vicende ucraine, a ulteriore dimostrazione della solidità degli interessi che accomunano le parti.

Ancora una volta, ciò che rimane in ombra è il possibile ruolo delle istituzioni europee. Dopo l’attivismo (forse eccessivo) che ha caratterizzato l’azione dell’UE nelle fasi centrali dei moti di Piazza Indipendenza e dopo l’endorsement concesso al nuovo governo con la visita di Lady Ashton a Kiev alla fine di febbraio, il profilo della sua azione sembra, infatti, avere sperimentato un drastico ridimensionamento. Se la visita di Obama aveva, almeno in parte, l’obiettivo di radunare i partner europei intorno a una bandiera comune, i suoi risultati in quest’ambito appaiono, quindi, limitati. Vulnerabilità politica e la mancanza di una leadership chiara e condivisa continuano a condizionare pesantemente l’azione di Bruxelles. Il tutto aggravato da una situazione economica e sociale interna che se da una parte concorre a spingere il tema dell’azione esterna in secondo piano rispetto alle necessità della ripresa e dello sviluppo, dall’altra alimenta il bisogno di successi in tale campo quale dimostrazione della credibilità di cui il processo d’integrazione continuerebbe a godere fuori dal perimetro dei “vecchi” Stati membri.

Gianluca Pastori, è professore aggregato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.
 
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