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Commentary

Crisi ucraina: più Cina e meno Giappone per il nuovo zar

07 aprile 2014

La crisi internazionale che ruota intorno alle sorti dell’Ucraina avvicina la Russia alla Cina e la allontana dal Giappone. Ciò rappresenta un cambiamento significativo degli equilibri strategici in Asia soprattutto perché si manifesta come un’inversione di tendenza. Una delle priorità della politica estera del governo giapponese insediatosi a fine 2012, dopo la vittoria elettorale di Shinzo Abe, consisteva, infatti, nella ricerca di una sponda a Mosca sia per equilibrare la propria strategia di approvvigionamento energetico e di rilancio degli investimenti, sia per disporre di una carta in più nello scontro che oppone Tokyo a Pechino. 

Il presidente Vladimir Putin era interessato ad assecondare questa scelta, che s’inquadrava facilmente nella sua politica di valorizzazione delle regioni estremo-orientali e regalava nuovi spazi di manovra all’insostituibile, ma complicato, dialogo con Pechino in chiave multilaterale e bilaterale. Un dialogo cui Xi Jinping, assumendo le redini della politica cinese, volle dare il massimo risalto scegliendo Mosca come meta del suo primo viaggio all’estero e che poggia tanto sulla complementarità economica (petrolio) quanto sulla simmetria d’impostazione dell’idea di sicurezza. Ora – come danno collaterale per Putin – si stanno azzerando gli sviluppi maturati nell’ultimo anno e se per Pechino le prospettive, pur con qualche ombra, sembrano essere positive, Tokyo deve gestire una situazione che ogni giorno si fa più difficile, dovendo cercare di non entrare in rotta di collisione con il Cremlino pur assecondando la linea dura dettata dall’Amministrazione Obama.

La proverbiale Realpolitik cinese, ben governata dalla nuova leadership, non ha faticato a bypassare le contraddizioni che, in linea di principio, la crisi ucraina sollevava. La non ingerenza negli affari interni degli stati, concetto basilare della politica estera cinese, non è compatibile, almeno agli occhi degli occidentali, con quanto sta accadendo in Crimea. Né, pensando quanto meno al Tibet, dovrebbe essere tollerabile per la Cina la secessione traumatica di una regione contro la volontà del potere centrale. Ma l’ingerenza può essere variamente interpretata: lo dimostrano le dichiarazioni dei portavoce ufficiali cinesi secondo cui «sono molteplici le ragioni alla base della crisi», un’implicita critica al sostegno occidentale alla rivolta anti-Yanukovich (e anti-russa). Quanto al Tibet, il paragone non regge, data la sproporzione di forze tra il Dalai Lama e Putin. Piuttosto, le interferenze russe in Ucraina potrebbero ostacolare il tentativo cinese di costruirsi una presenza autonoma in Crimea. Ma anche la decisa sterzata filo-Ue e filo-Nato dell’Ucraina post Yanukovich avrebbe avuto lo stesso effetto.

Tutto induce a pensare che la Cina non abbia alcun interesse a un’escalation della tensione che comporti gravi sconvolgimenti sul piano economico globale. Per il resto Pechino ha molto da guadagnare. Innanzitutto quanto più l’Ucraina e lo scontro con Putin assorbe l’attenzione di Obama, tanto più perde consistenza il Pivot to Asia inaugurato da Washington nel 2011, sempre percepito come la cornice di una politica di contenimento anti-cinese. Sia pure per ragioni diverse, anche Mosca aveva varato una sorta di politica di contenimento dell’espansione cinese, in particolare quella che si rivolge verso l’Asia centrale. In questo settore strategico di enorme importanza per gli approvvigionamenti energetici di Pechino, malgrado i tentativi di coordinamento che passano anche attraverso il gruppo di Shanghai (Sco), era in corso una competizione cui ora Putin, bisognoso della copertura diplomatica cinese, dovrà mettere la sordina. D’altra parte il doppio corteggiamento di questi ultimi giorni sia di Mosca sia di Washington rafforza lo status di potenza globale della Cina. E per di più di potenza affidabile, che con soddisfazione di Obama evita di porre il veto in sede di Consiglio di sicurezza dell’Onu a una risoluzione di condanna del referendum per l’indipendenza in Crimea, ma che nel contempo, ammiccando a Putin, non solo critica l’adozione di sanzioni, ma cementa il blocco dei Brics su questa posizione proprio nel momento in cui gli occidentali affossano il G8 e il G20 sembra destinato ad acquisire sempre più influenza. 

Abe si è mosso all’inizio con una certa ambiguità, sottoscrivendo gli ammonimenti alla Russia a firma G7, ma anche invitando «tutte le parti implicate nella crisi a comportarsi con moderazione e senso di responsabilità». Poi ha capito che l’auspicato bilanciamento tra Russia e Stati Uniti, era inattuabile. «Rifiutiamo nel modo più assoluto – ha detto il premier nipponico al senato nei giorni scorsi – ogni azione che miri a cambiare lo status quo attraverso l’uso della forza». Accetta anche la logica delle sanzioni, pur preferendo puntare, invece che sull’isolamento di Mosca, sull’appoggio finanziario alle autorità di Kiev: il pacchetto di aiuti potrebbe arrivare a sfiorare il miliardo di dollari.

A Tokyo si cerca di restare defilati nello scontro tra il G7 e Putin perché l’avvicinamento a Mosca era una priorità strategica, evidenziata dai cinque incontri in poco più di un anno tra Abe e Putin, compreso quello a Sochi in occasione dell’apertura delle Olimpiadi, politicamente scottante data la polemica assenza della maggior parte dei leader occidentali. L’aspetto economico di questa scelta è ragionevole, meno quello politico che era – ovvero si sta dimostrando – un azzardo, voluto soprattutto dagli ambienti più inclini al nazionalismo e all’oltranzismo. L’obiettivo di fondo, poco lungimirante,  consisteva nel porre un cuneo tra Russia e Cina, in modo da indebolire quest’ultima almeno in sede diplomatica e porre le basi per un nuovo ordine in Asia, dove  la crescente influenza dell’Impero di mezzo  venisse contrastata  dalle convergenze tra Russia e Giappone. Si tratta di un obiettivo così importante, nella fase in cui la crisi delle Senkaku s’incancrenisce e le spinte scioviniste alimentano i dissapori anche con la Corea del Sud, da far dimenticare il contenzioso sui Territori del Nord (Kurili)  che da 60 anni avvelena le relazioni con la Russia.  

Probabilmente Abe era consapevole che il Giappone non ha la forza di staccare la Russia dalla Cina e intendeva limitarsi a incassare il consenso dell’estrema destra per potersi muovere liberamente nella prospettiva di un consolidamento, tramite Putin, della sua Abenomics. In più, proprio dall’accresciuta partnership economica con Mosca sperava di ricavare elementi atti a chiudere il capitolo delle annose trattative sui Territori del Nord.

Ora il premier nipponico rischia di dover raccogliere i cocci di una scelta cui Obama ha contrapposto una sorta di aut-aut, ponendo sul piatto della bilancia tutto il peso dell’alleanza di ferro tra Tokyo e Washington. Tocca con mano quanto il tanto decantato secolo del Pacifico vada a perdersi nelle nebbie dell’Europa Orientale e di una fiammata di guerra fredda vecchio stampo, ammantata di atlantismo. D’altra parte qualora il cambiamento traumatico delle frontiere dell’Ucraina venisse digerito dall’Occidente senza che ne derivassero per la Russia gravi conseguenze, la Cina potrebbe dedurne che riceverebbe lo stesso benevolo atteggiamento qualora procedesse ad annessioni forzate di territori contestati, Senkaku comprese. Il Trattato di sicurezza – nonché le dichiarazioni fatte dal segretario di stato americano, John Kerry, e dal ministro della Difesa Chuck Hagel – dovrebbe assicurare al Giappone la protezione militare americana nel caso in cui Pechino pensasse a un Blitz sull’arcipelago conteso, anche l’Ucraina però era protetta dal memorandum di Budapest, che contemplava l’impegno di Stati Uniti e Gran Bretagna, oltre che della Russia, a salvaguardarne la sovranità. Muovendo da questa considerazione a Tokyo in molti sono convinti che la moderazione e la sostanziale equidistanza cinese celino un’interessata attesa, nella speranza di un semaforo verde  a una  maggiore assertività nel Mar Cinese Orientale e nel Mar Cinese Meridionale.

Dal che scaturirebbe una conseguenza negativa supplementare: una fuga in avanti, provocata dalla crescente sfiducia nella capacità degli americani di contrastare aggressioni contro paesi amici. E in tal caso si consoliderebbe la tendenza a un build up militare generalizzato nell’area estremo-orientale, con possibili ricadute, come ha avvertito il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, anche a  livello di proliferazione nucleare. 

Fabio Tana, già capo-servizio esteri dell'Agenzia Ansa, analista di politica internazionale per l'Aspen Institute Italia.
 
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