Crisi USA: per la Cina un palcoscenico in Asia | ISPI
Salta al contenuto principale

Form di ricerca

  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED
  • G20 & T20

  • login
  • EN
  • IT
Home
  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED
  • G20 & T20
  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri ristretti
    • Conferenze di scenario
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI

  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri ristretti
    • Conferenze di scenario
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI
Commentary
Crisi USA: per la Cina un palcoscenico in Asia
15 ottobre 2013

Negli ultimi anni, non è un mistero come la politica economica della Cina abbia puntato sulle esportazioni secondo un modello di sviluppo che metteva in secondo piano il consumo interno. Si è trattato di una scelta largamente condivisa nel Partito Comunista dato che uno dei maggiori detrattori di questa scelta, l’ex “principino rosso” Bo Xilai, è caduto ormai in disgrazia. Per favorire l’export, la People’s Bank of China ha proceduto all’acquisto di valuta estera, soprattutto dollari, in modo da mantenere basso il valore del Renminbi (lo yuan) negli scambi monetari. Anno dopo anno, oltre ai dollari, la Cina ha comprato negli Stati Uniti anche azioni, titoli del debito e, soprattutto, del tesoro. Il totale, secondo stime indicative della metà del 2012, ammonterebbe a circa 1,6 milione di milioni di dollari, corrispondente al 45% delle riserve estere cinesi, ma questa percentuale arriverebbe oggi al 60% secondo il Financial Times. Sembra quindi naturale che la Cina rivolga una certa attenzione al dibattito sul tetto del debito americano e allo spettro di un possibile default.

Mercoledì 2 ottobre, le notizie dei contrasti fra Obama e i Repubblicani sono state riportate dalla Xinhua, l’agenzia di stampa controllata dal governo, con un editoriale che descriveva i repubblicani come «the ugly side of partisan politics in Washington». Una pubblica dichiarazione in proposito, però, è arrivata soltanto lunedì 7 ottobre, quando il viceministro delle Finanze, Zhu Guangyao, ha espresso le proprie apprensioni per il protrarsi della situazione. Il «tempo sta scadendo» per gli Stati Uniti, gravati della «responsabilità» di un’economia che influisce su quelle del resto del pianeta. Il viceministro non ha naturalmente mancato di sottolineare i legami fra Pechino e Washington, ma questo tipo di dichiarazioni era nel complesso prevedibile da parte cinese, visti gli investimenti nazionali nel debito degli Usa.

È stata piuttosto la cancellazione del viaggio di Obama nel sud-est asiatico che ha visto i leader cinesi pronti a cogliere l’occasione di due palcoscenici vuoti: il summit dell’Apec a Bali (Indonesia) e quello dell’East Asia Summit/Asean a Bandar Seri Begawan (Brunei). Il primo (5-7 ottobre) ha visto la partecipazione di Xi Jinping, che ha poi visitato anche la Malaysia. Il discorso del leader cinese alla conferenza si è incentrato sulle stabilità della crescita cinese e sulla necessità di intensificare le relazioni commerciali, ma è stato davanti al parlamento indonesiano che Xi ha proposto la costituzione di un banca di investimento regionale e ha fissato l’obiettivo di portare il volume dei traffici tra Cina e paesi del sud-est asiatico a un milione di milioni di dollari nel 2020. Durante il suo discorso, è stato perfino recuperato un tema classico della diplomazia cinese, la sacralità dell’autonomia dei singoli paesi nello scegliere il modello di sviluppo che meglio si adatta alle condizioni locali, lo stesso principio fatto valere per la Siria in opposizione all’intervento americano.

Il XXIII summit dell’Asean e il collegato East Asia Summit (9-10 ottobre) sono stati invece seguiti dal premier Li Keqiang, impegnato in un viaggio che tocca anche Tailandia e Vietnam. Alla conferenza, il leader ha avuto un incontro di un’ora e un quarto con John Kerry, inviato da Obama in sua vece. Nonostante il colloquio sia avvenuto a porte chiuse, l’agenzia Xinhua ha riportato «the great attention to the US debt ceiling issue» espressa dal capo di governo cinese. Successivamente, altre indiscrezioni dello State Department americano informavano della risposta di Kerry, il quale avrebbe ribattuto rassicurando la controparte sulla tenuta del governo Obama e sul carattere passeggero del momento di stallo. La volontà di giocare un ruolo di rilievo (o di maggior rilievo rispetto agli Stati Uniti) nel contesto asiatico si ritrova nelle parole di Li durante la conferenza vera e propria, quando il premier ha dichiarato l’urgenza del zona di libero scambio regionale al centro delle discussioni per il Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep). Il progetto comprende dieci paesi Asean (Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Filippine, Singapore, Tailandia e Vietnam) e sei partner che partecipano all’East Asia Summit (Australia, India, Giappone, Corea del Sud, Nuova Zelanda e, ovviamente, Cina).

La proposta di Li Keqiang, al pari della banca di sviluppo di Xi Jinping, ha un carattere prettamente regio-nale, che di fatto esclude gli Stati Uniti. Il grande as-sente in Asia sembra dunque essere proprio Obama, che con il suo “pivot to Asia” avrebbe dovuto segnare un punto a favore degli Usa e del modello che questi ultimi propongono, la Trans-Pacific Partnership (Tpp). Le negoziazioni segrete per questi accordi commerciali, in corso dal 2010, si sono mano a mano ampliate arrivando a comprendere Australia, Brunei, Cile, Canada, Giappone, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam e Malaysia. Proprio quest’ultima, uno dei paesi la cui adesione è maggiormente in bilico, ha ricevuto la visita di Xi Jinping che, nella seconda tappa del suo viaggio, ha prospettato accordi per 28 miliardi di dollari e ha firmato un accordo di cooperazione per portare gli scambi commerciali a 160 miliardi entro il 2017. Allo stesso modo, Li Keqiang, dopo il Brunei,  ha promesso in Tailandia investimenti che dovrebbero portare l’interscambio fra i due paesi a 100 miliardi di dollari per la fine del 2015.

Non si è trattato però soltanto di economia. Li Keqiang, durante il summit dell’Asean, ha affermato a sorpresa che «abbiamo bisogno di collaborare affinché il Mar Cinese Meridionale diventi un mare di pace, di amicizia e di cooperazione». L’improvviso tono conciliante da parte cinese e l’anteposizione del commercio alle rivendicazioni su acque potenzialmente ricche di petrolio, uno dei maggiori fattori di tensione nel sud-est asiatico, hanno fatto balenare la possibilità di un compromesso che, secondo le modalità proposte, consacrerebbe l’estraneità degli Usa al processo di pacificazione. John Kerry si è subito opposto sostenendo le Filippine, che propendono per un arbitrato internazionale anziché per una soluzione attraverso accordi bilaterali, come vorrebbe la Cina. Per altri versi, la Repubblica Popolare ha continuato a sostenere i suoi “diritti” in questi giorni. Oltre a mettere in guardia il Giappone per i suoi propositi di inviare truppe sulle isole Spratly, martedì 8 ottobre è stata resa nota una serie di arresti che, a partire da agosto, ha fermato 139 musulmani dello Xinjiang per propaganda terroristica via internet. In Tibet, il 6 ottobre, la polizia ha aperto il fuoco su una manifestazione nata in seguito all’obbligatorietà per i tibetani di esporre la bandiera cinese durante la festa nazionale del 1 ottobre. Perfino la parte cinese della Mongolia, zona di agitazioni per l’estesa attività estrattiva e per le espropriazioni di terreni, ha visto operazioni di disarmo della popolazione nella città di Tongliao, abitata da circa un milione e mezzo di mongoli.

In conclusione, la classe dirigente cinese non sembra eccessivamente preoccupata dallo spettro di un possibile default e, anzi, appare avere una certa fiducia nella capacità del mondo politico americano di comporre i contrasti. La cancellazione del viaggio di Obama ha consentito a Xi Jinping e a Li Keqiang di portare avanti la propria politica regionale e presentare la Cina come un paese solido e affidabile, con cui stringere proficue relazioni commerciali. Il punto a favore segnato da Pechino non costituisce però una vittoria definitiva, ma deve essere contestualizzato nell’ambito di un cammino ben più lungo. La capacità di esercitare un’influenza decisiva in Asia trova certamente un ostacolo nei conflitti ancora aperti nel Mar Cinese Meridionale e con il Giappone. La capacità del comitato permanente del Partito Comunista Cinese di coniugare aspirazioni nazionali e buone relazioni con i Paesi vicini costituisce uno dei punti chiave della più generale geopolitica asiatica.

Lorenzo M. Capisani, ISPI Research Trainee
 

VAI AL DOSSIER


Ti potrebbero interessare anche:

Cina: il 'grande balzo' del Pil
Coinbase: le criptovalute sbarcano a Wall Street
Suga’s Trip to Washington: A Landmark Moment in Japan Foreign Policy
Edward Danks
Asia House
Myanmar, il golpe riaccende la lotta per le autonomie regionali
Emanuele Giordana
Giornalista
Transizione verde: petrolio, meno Europa e più Asia
Ruben David
ISPI
Geopolitica: USA e Cina, rivali indispensabili
Simone Urbani Grecchi
Intesa SanPaolo

Tags

Stati Uniti Obama Crisi economica shutdown default Repubblicani Democratici Cina Xi Jinping Li Keqiang Sud-est asiatico Asia ASEAN Apec TPP
Versione stampabile
Download PDF

SEGUICI E RICEVI LE NOSTRE NEWS

Iscriviti alla newsletter

Chi siamo - Lavora con noi - Analisti - Contatti - Ufficio stampa - Privacy

ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) - Palazzo Clerici (Via Clerici 5 - 20121 Milano) - P.IVA IT02141980157