La crisi in Repubblica Centrafricana, un paese di medie dimensioni, popolato da meno di cinque milioni di abitanti, di cui due terzi residenti in area rurale, avrebbe potuto continuare a essere considerata un fenomeno periferico, non fosse stato per l’attenzione di Parigi e di Washington, che, invocandola come una delle priorità della sicurezza internazionale, l’hanno riportata all’attenzione di vari consessi multilaterali – dall’Assemblea generale dell’Onu al recente Forum Francia-Africa a Parigi.
La prima lezione impartita dal colpo di stato del movimento Seleka, è stata che, in una regione segnata dalla convivenza di stati fragili – o falliti – la cui maggiore caratteristica è oltretutto l’estrema porosità delle frontiere, qualsiasi luogo può essere colpito e destabilizzato dalle derive di fenomeni globali. Nel caso della Repubblica Centrafricana, i protagonisti del conflitto sono inizialmente risultati intelleggibili, proprio perché la coalizione Seleka, lungi dall’essere quell’alleanza salda che il nome evocava, era invece costituita da una costellazione eterogenea di gruppi di insorti: su di essa si sono innestate formazioni jihadiste e combattenti provienienti dai paesi confinanti, in primis Sudan e Ciad, già noti per il loro operato in Libia.
I Seleka hanno reclutato anche fra le province musulmane del Nord, cioè quelle più colpite da disoccupazione, povertà e reiterata marginalizzazione fin dai primi anni di governo di François Bozizé, che infatti si era già scontrato precedentemente con la ribellione settentrionale, potendo contare, nel 2006-2007, sul sostegno militare francese. Gli attori della guerra civile centrafricana acquisiscono quindi un profilo simile a quello dei movimenti ribelli delle più recenti crisi saheliane: il bacino di reclutamento del Mouvement national pour la Libération de l’Azawad (Mnla) e di Ansar Al-Din in Mali e il retroterra di Boko Haram in Nigeria rimandano specularmente a situazioni di esasperata arretratezza e relative rivendicazioni di giustizia sociale fondate sulla redistribuzione delle risorse, in contrapposizione alla corruzione endemica dello stato centrale.
L’emergere di una pericolosa frattura religiosa fra cristiani (e animisti) e musulmani, di difficile ricomposizione nel lungo periodo, è stata una conseguenza, più che la causa, del conflitto: al contrario della difficoltà di convivenza fra le comunità che caratterizza la Nigeria, nel caso del Centrafrica la maggioranza cristiana e la minoranza musulmana hanno coesistito pacificamente, o per lo meno le religioni non si erano rivelate di particolare ostacolo, come provano i frequenti matrimoni misti – soprattutto in area urbana – e addirittura la presenza di matrimoni poligami in cui le mogli non hanno lo stesso credo religioso. I movimenti ribelli pre-esistenti avevano istanze rivendicative riconducibili alla discriminazione economica, più che autenticamente religiose. Gli insorti del movimento Seleka si sono invece connotati come musulmani, impiegando la stessa violenza dei gruppi jihadisti saheliani, e sono stati quindi identificati dalle popolazioni del Sud come invasori stranieri. La creazione di milizie di autodifesa cristiane (anti-balaka, gli anti-machete) è avvenuta come reazione alle esazioni e ai crimini perpetrati sulla popolazione civile, anche in nome dell’islam.
L’escalation di violenza cui si è assistito, parallela alla progressiva incapacità del nuovo presidente Michel Djotodia di controllare gli ex-Seleka, anche dopo il loro scioglimento, e la percezione di un imminente rischio genocidio, ha permesso a François Hollande di giocare la carta dell’intervento rapido e obbligato che solo la Francia sarebbe riuscita a garantire (data la presenza di contingenti francesi sia in Repubblica Centrafricana stessa, sia nei paesi confinanti a cominciare dal Ciad e dal Camerun). Si è così riproposta una dinamica molto simile a quanto avvenuto in Mali – dove peraltro l’esercito francese si è trovato a dover prolungare il suo intervento a data da destinarsi, senza potere ridurre il numero degli effettivi come inizialmente previsto.
La Francia, vantando la sua immediata capacità di risposta alle crisi nella fascia saheliana, ha ottenuto il via libera per un intervento di fatto unilaterale, ma formalmente avallato dall’Onu e in qualche modo invocato dall’opinione pubblica internazionale. L’Unione Africana si è trovata di nuovo nella posizione di non poter fare altro se non accettare la pronta offerta di Parigi a sostegno della Misca, la missione internazionale (e inter-africana) di sostegno alla Repubblica Centrafricana, non fosse altro che per reale incapacità di controllare un’ulteriore degenerazione della situazione. Il Ciad, alleato storico della Francia, sebbene sia indicato da più fonti come uno dei maggiori sostenitori del colpo di stato Seleka, ha riottenuto lo statuto di paese chiave per gli equilibri regionali, come era già accaduto con il conflitto in Mali.
L’esercito francese ha il mandato dell’acquartieramento forzato degli ex-ribelli, quando non intrapreso in modo volontario, e del loro disarmo. La protezione di questi stessi combattenti, passati da vincitori a vinti e quindi ad altissimo rischio di rappresaglie, è un soggetto che sembra non riscuotere particolare interesse. Il rastrellamento degli ex-Seleka avviene contemporaneamente a furti e danneggiamenti perpetrati dalla popolazione locale ai danni degli esercizi commerciali musulmani e ciadiani da tempo residenti a Bangui. La reintegrazione delle milizie in una società gravemente lacerata non potrà sicuramente essere indolore, ma è un tema rimandato alla futura missione di stabilizzazione Onu promessa da Ban Ki-moon. Gruppi di ribelli sarebbero inoltre scappati a Nord, disperdendosi nelle zone rurali. La loro riorganizzazione, i loro contatti oltre confine e nell’area, il loro potenziale di destabilizzazione futura o il loro eventuale riproporsi sotto altre forme ufficialmente sono minimizzati.
Nella sostanza le redini della sicurezza, in Africa, anche nel mondo multipolare, rimangono ben salde nelle mani delle potenze tradizionali. La responsibility to protect delle organizzazioni internazionali, non contempla la prevenzione, ma interventi chirurgici di emergenza, indirizzati verso il male conclamato e solo raramente verso i malesseri sopiti. Il fallimento di uno stato è un processo di lunga degenza, e una volta che ci si fa l’abitudine, si finisce per sottostimare i segnali più allarmanti.
La crisi in Centrafrica, inoltre, ripropone con durezza il tema dell’inefficacia dell’Unione Africana che, causa il processo di riforma intrapreso, ma non ancora terminato, non dispone di strutture adeguate e pronte a intervenire in conflitti nebulosi come quelli che caratterizzano la fascia saheliana, in cui forze non statali e milizie, anche provenienti dall’esterno, riescono a impadronirsi rapidamente di porzioni considerevoli di territorio. Lo scambio di informazioni che dovrebbe alimentare il sistema di allerta precoce è ancora in divenire, e la mediazione, uno dei punti di forza dell’organizzazione panafricana, è continuamente sottoposta al rischio di trasformarsi in faziosa ingerenza e frenata dall’eterno problema dell’opportunità del riconoscimento di gruppi pseudo terroristi. Oltre alle oggettive difficoltà logistiche e di finanziamento, l’Ua fatica a decifrare il mondo interconnesso, non riuscendo
ad appropriarsi fino in fondo delle dinamiche del mondo globalizzato volgendole a proprio vantaggio. Il risultato è un cronico ritardo, e spesso, al suo arrivo, il posto è già occupato.