Crisis to watch 2020: Il Sahel
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Il mondo che verrà: 10 domande per il 2020
Crisis to watch 2020: Il Sahel
Francesco Strazzari
|
Luca Raineri
26 Dicembre 2019

Terrorismo, traffici illegali e flussi migratori. Il Sahel è la regione dell’Africa – e forse del mondo – dove più si condensano questi fenomeni, che alimentano crisi politiche e sociali. Nel 2020 tenerla d’occhio sarà fondamentale.

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Area “fragile” per antonomasia, piagata da perduranti problemi di povertà e sviluppo, il Sahel è investito da una crisi in cui dinamiche di conflitto regionali si intrecciano a soggiacenti tensioni locali. Questo breve articolo propone una lettura multi-scalare – nazionale, transnazionale e internazionale – delle traiettorie della crisi politica che investe l’area coperta da Mali, Niger e Burkina Faso, nonché le sfide che attendono la regione nel 2020. Sul piano transnazionale, non fanno che intensificarsi i problemi di sicurezza connessi a dinamiche di radicalizzazione, insorgenza di matrice jihadista, e forme di criminalità più o meno organizzata. Nel 2019 gli attacchi di gruppi jihadisti nella regione sono cresciuti esponenzialmente per numero, letalità e complessità. In Mali si consolida la presenza di gruppi legati alla costellazione di Al-Qaeda, riuniti nel Gruppo di Sostegno all’Islam e ai Musulmani (JNIM), mentre in Niger prosegue il radicamento dello Stato Islamico, attraverso l’alleanza fra la Provincia Occidentale (ISWAP) – erede di Boko Haram, attiva nella zona del Lago Ciad – e dello Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS) – erede del MUJAO, formazione che aveva conquistato la città maliana di Gao nel 2012. In Burkina Faso, così come nella regione maliana di Ménaka, si segnala la presenza di entrambe le franchise: e sebbene fino a ora le relazioni siano state più di convivenza che di competizione, non è da escludere che il progressivo avvicinamento territoriale possa innescare una disputa per il controllo di reclute e risorse.

Ampie regioni sfuggono ormai completamente al controllo di capitali “messe in sicurezza” al prezzo di dedicare ad esercito e polizie quote insostenibili di budget: il nord del Mali, fra Kidal e Taoudenni, il delta interno del Niger, e la stessa zona delle tre frontiere fra Mali, Niger e Burkina Faso segnano aree di controllo inesistente o intermittente, dove l’eventuale presenza di distaccamenti militari, caserme, scuole, municipi è fatta oggetto di attacco sistematico. A novembre l’attacco terroristico alla base di Indélimane, dove sono morti una cinquantina di militari maliani, ha causato il “ripiego strategico” delle forze armate e la sostanziale cessione di sovranità su un’ampia fascia frontaliera. Il successivo attacco a Inates, sul lato nigerino della frontiera, ha causato 71 morti e un terremoto ai vertici delle strutture di sicurezza. L’incapacità degli stati di contenere l’avanzata dei gruppi jihadisti e dei loro alleati locali ha fornito un pretesto per la nascita di gruppi armati di autodifesa, coagulati lungo le faglie delle soggiacenti divisioni etniche e non di rado sostenuti informalmente dai rispettivi governi e dai loro alleati occidentali. La polarizzazione tribale che ne è conseguita non ha fatto altro che aggravare l’escalation di violenza, come testimoniato dai massacri di Yirgou (Burkina Faso) a gennaio, e di Ogossagou (Mali) a marzo, costati la morte di circa 250 civili di un gruppo etnico, i Peul (Fulani in inglese), considerato vicino ai jihadisti. I sopravvissuti sono quindi fuggiti in massa per sottrarsi alla morsa di contendenti armati spesso anonimi: nel corso degli ultimi 18 mesi, gli sfollati interni sono aumentati di tre volte in Mali, di cinque volte in Niger, e di trenta volte in Burkina Faso, superando il mezzo milione complessivo.

Contestualmente, il Sahel continua a offrire un corridoio di predilezione per numerosi traffici. La riduzione dei flussi migratori (verosimilmente di scala inferiore rispetto a quanto riportato nelle statistiche ufficiali, e non considerati una priorità dalla popolazione) ha messo sotto pressione economie locali legate a migrazioni circolari e stimolato una deriva criminale, con il consolidamento delle organizzazioni più gerarchicamente strutturate e politicamente protette, e la crescente sovrapposizione di traffico e tratta. Sequestri senza precedenti hanno confermato il massiccio ritorno del traffico internazionale di cocaina nella regione, mentre la crescita dei flussi di oppiacei sintetici, come il tramadol, è trainata da una domanda per il consumo in crescita esponenziale, specialmente in nord Africa. Infine, la progressiva scoperta di un filone aurifero che attraversa l’intera regione ha stimolato una vivace industria estrattiva, che però rimane artigianale e informale: si teme che i proventi possano essere intercettati da gruppi armati di varia natura, con creazione di un racket della protezione da parte di gruppi armati non statali.

Numerose sono le sfide in calendario nel 2020 anche sul piano delle politiche nazionali in una regione dove l’erosione di standard democratici pare essere condonata dalla comunità internazionale: crisi post-elettorale in Mali, elezioni in Burkina Faso, transizione di potere in Niger.

In Mali, la contestazione dei risultati delle elezioni presidenziali del 2018, che hanno visto la conferma del presidente Keita, ha innescato un tortuoso processo di Dialogo Nazionale Inclusivo che dovrebbe concludersi proprio agli inizi del 2020. Il processo tuttavia rischia di mettere in discussione non solo la legittimità del presidente, ma anche il processo di pace con i gruppi ribelli del nord, appeso al fragile trattato firmato ad Algeri nel 2015, la cui applicazione resta ancora molto problematica. In un contesto di polarizzazione crescente, il probabile – ennesimo – rinvio delle elezioni legislative e regionali rischia di erodere ulteriormente la credibilità delle istituzioni democratiche: cominciano a manifestarsi preoccupazioni che Keita non sia in grado di portare a termine il proprio mandato.

Inoltre, nel novembre 2020 si terranno le elezioni presidenziali e legislative in Burkina Faso. Il presidente uscente Kaboré, eletto a seguito della rivolta popolare che ha destituito l’ex-dittatore Compaoré, si presenta indebolito da un quadro di sicurezza sul territorio nazionale che sembra sfuggire di mano, e che i cambi di vertice alla testa delle forze di sicurezza del paese non hanno contribuito a risolvere. L’opposizione, sebbene frammentata, può contare sul malcontento diffuso per le preoccupanti condizioni sociali e di sicurezza del paese, e su un’incerta situazione sul piano costituzionale, il che non manca di ridare fiato ai nostalgici dell’ancien régime.

In Niger, il 2020 segnerà il culmine della campagna elettorale per le elezioni presidenziali previste a fine anno. La costituzione impedisce al presidente uscente, Issoufou, di candidarsi per un terzo mandato consecutivo: sebbene esista un successore designato, una transizione lineare sarebbe senza precedenti in un paese che ha conosciuto sei golpe in sessant’anni di indipendenza. Il candidato del partito di maggioranza, il ministro degli interni Bazoum, gode del favore della comunità internazionale: tuttavia, per quanto l’opposizione sia stata marginalizzata, la sua popolarità in patria è più dubbia, e la sua constituency etnica è numericamente molto debole.

Infine, anche sul piano internazionale i paesi saheliani costituiscono un fronte altamente dinamico, dall’allineamento contendibile. Mentre le crisi in corso in Algeria e Libia riducono l’influenza delle tradizionali potenze regionali, l’egemonia francese nell’area delle ex-colonie è tutt’altro che incontrastata. Da una parte, la rapida crescita demografica della regione suscita gli appetiti di paesi interessati alla conquista di mercati tanto economici quanto ideologici. Oltre alla Cina, Marocco, Turchia, Arabia Saudita – ciascuno latore di una diversa visione del rapporto fra Islam e politica – sono all’avanguardia nella regione per quanto riguarda l’offerta di infrastrutture, servizi finanziari e centri di promozione culturale e religiosa.

D’altra parte, le operazioni internazionali di lotta al terrorismo hanno concesso ai governi locali l’occasione di diversificare i propri partenariati militari, e la moltiplicazione dell’offerta ha inevitabilmente corroso il monopolio di Parigi. La missione francese Barkhane, forte di 4.500 uomini schierati dal Chad alla Mauritania, convive oggi con un’importante missione USA, che sulla scia dei partenariati anti-terroristici lanciati già dal 2002 ha insediato nel nord del Niger la più grande base di Washington sul continente africano, con tanto di droni armati operativi nel teatro regionale. E tuttavia l’apparente incapacità degli attori occidentali di contrastare l’insorgenza jihadista nella regione suscita crescenti apprensioni e interrogativi presso le popolazioni locali. Tali sentimenti, radicati nella diffidenza anti-coloniale e alimentati dalla rapida propagazione di fake-news, agevolano le ambizioni strategiche della Russia, che nel corso del primo vertice Russia-Africa, tenutosi a Sochi nell’ottobre 2019, ha palesato l’interesse a rafforzare la cooperazione con i partner africani, specialmente sul piano militare. Mosca è già presente nella regione: interviene in Repubblica Centrafricana, ha recentemente siglato un accordo di cooperazione militare con il Mali, ed è sempre più direttamente coinvolta sulla prima linea del conflitto in Libia. Non v’è dubbio che tali dinamiche abbiano già suscitato le preoccupazioni delle cancellerie europee, la cui ambizione a fare della regione un confine pacificato, che collabora al contenimento di flussi sensibili, deve fare i conti con l’instabilità che il montare dell’insorgenza jihadista e della competizione geostrategica fra nuove e vecchie potenze comporta.

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AUTORI

Francesco Strazzari
Scuola Superiore Sant’Anna Pisa
Luca Raineri
Scuola Superiore Sant’Anna Pisa

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