A fine ottobre, quando Aleppo era ancora una città spaccata in due, teatro di violenti combattimenti, non pochi dei civili rimasti ci avevano reso partecipi di un loro dilemma: «E dopo cosa accadrà?» Nei quartieri controllati dai ribelli, tutti sostenevano la rivolta armata contro il regime siriano. E, tutti, o quasi, erano convinti che la caduta del presidente Bashar al-Assad fosse solo una questione di tempo. Ma ignorare cosa stava accadendo nelle file dei miliziani era un atteggiamento ingenuo. Quelle lunghe barbe, l’accento straniero e le fasce inneggianti ad Allah intorno al capo di molti miliziani spiegavano meglio di tante parole come l’opposizione siriana che si stava formando all’estero non rispecchiava la realtà sul campo.
L’ascesa dei gruppi salafiti, e di alcune cellule jihadiste composte da mujaheddin stranieri, era – ed è tutt’ora – motivo di grande preoccupazione. Dopo i recenti successi militari, le forze dei ribelli sembrano destinate ad avere la meglio sul regime. È probabile che il 2013 saluterà la nascita di una nuova Siria. Ma di che tipo?
Nei Paesi travolti dalla Primavera Araba, la transizione siriana appare la più complessa. Il riconoscimento da parte degli Usa, e di altri 100 Paesi, della Coalizione nazionale siriana (Snc) come unico e legittimo rappresentante della Siria, non deve trarre in inganno. Creato l’11 novembre a Doha, e guidato dall’ex-imam sunnita Moaz al-Khatin, il Snc risponde più alla necessità dell’Occidente di trovare un interlocutore “affidabile”, che alla volontà delle diverse fazioni siriane di trovare un accordo spontaneo e funzionale. Gli obiettivi del Snc sono ambiziosi: preservare la so-vranità territoriale del Paese e l’unità della popolazione e arrivare alla formazione di una repubblica parlamentare in cui vi sia una reale separazione dei poteri e il rispetto delle minoranze..
Sul terreno, tuttavia, l’opposizione armata resta ancora un coacervo di milizie. Il Libero esercito siriano (Efs), formato nel luglio del 2011 in Turchia da un nutrito gruppo di disertori, opera in colla-borazione con una moltitudine di milizie. Come la Liwa al Tawhid, con 9mila miliziani il gruppo più numeroso della Siria, che tuttavia è un’“organizzazione ombrello” che riunisce a sua volta diversi gruppi. Ad Aleppo molti cellule, che si proclamavano salafite, spiegano di condividere gli obiettivi e le operazioni militari con l’Efs, ma reclamano la loro indipendenza.
Se la guerra contro il regime è il collante che tiene unite le diverse anime della rivolta, una volta venuto meno prevarranno le differenze. L’esercito siriano ripete da tempo che il fenomeno radical salafita è del tutto marginale. Ma è ingenuo pensare che i gruppi salafiti più aggressivi, e i movimenti jihadisti, siano disposti a farsi da parte una volta avviata la transizione. Anche perché l’agenda di alcuni di loro appare inconciliabile. Senz’altro quella di Jabhat al-Nusra li-Ahl al-Sham, il gruppo più legato ad Al Qaida. Nell’agenda di Jabhat il rovesciamento del regime è solo la prima tappa di un processo il cui fine è l’instaurazione di un califfato islamico in Siria. Nei suoi proclami ripudia l’Occidente, accusa la stessa Turchia di non essere abbastanza islamica ed è finora il solo movimento ad aver rivendicato due attacchi suicidi contro il regime (ma è sospettata di essere dietro a oltre 100 attentati kamikaze). La sua conquista dell’ultima grande base militare del regime nei dintorni di Aleppo è una dimostrazione di forza da non sottovalutare.
La Siria è un calderone multietnico e multi religioso. Se i sunniti rappresentano almeno il 70% della popolazione, è altrettanto vero che vi sono gli alawiti (circa il 10%, identificati come sciiti duodecimani), i cristiani (altro 10%) e altre minoranze come i curdi. Dopo 21 mesi di rivolta, e gravi atrocità nei confronti dei civili, il rischio di pulizie etniche e sanguinose vendette è reale. Conciliare le diverse anime della Siria richiederà del tempo.
Sul fronte internazionale il quadro è ancor più complesso. Gli alleati di Damasco non sono disposti a essere spettatori di una transizione in cui non possono avere un ruolo determinante. Per Mosca la Siria è il suo ultimo alleato in Medio Oriente. Il trionfo dell’attuale opposizione estrometterebbe il Cremlino dalla regione.
Quanto all’Iran, l’alleato più solido di Assad, perdere la Siria, equivale a perdere il ponte che la collega al Mediterraneo e agli Hezbollah, gli sciiti libanesi. L’Iraq appare in una posizione ambigua. Il suo governo filo-sciita, creatosi dopo la caduta di Saddam Hussein, difficilmente vedrà di buon occhio una nuova Siria a guida sunnita, in cui potrebbero militare alcune delle organizzazioni estremiste che stanno tutt’ora combattendo sul suo territorio. Se la situazione in Siria sfuggisse di mano, il nuovo conflitto rischierebbe di estendersi agli Stati confinanti. Tra i quali il piccolo Libano (ancora diviso tra sostenitori e oppositori di Assad) potrebbe essere una vittima predestinata.
La maggior parte dei siriani è contraria all’intervento di una forza internazionale di pace per garantire il processo di transizione. La soluzione più ragionevole sarebbe un governo di unità nazionale. Con 41mila vittime alle spalle, 28mila persone scomparse, innumerevoli crimini efferati commessi da ambo le parti contro i civili, appare anche la soluzione più difficile.