L’invasione russa dell’Ucraina ha stravolto i mercati energetici, rivoluzionando le dinamiche che avevano sin qui disciplinato l’approvvigionamento europeo di gas e petrolio. Una rivoluzione geopolitica e geoeconomica che ha offerto alla Croazia, l’ultimo Paese ad essere entrato nell’Unione Europea, l’opportunità di diventare un nuovo hub energetico per l’Europa centrale e balcanica. L’infrastruttura strategica attorno a cui ruotano le ambizioni energetiche di Zagabria è quella sull’isola di Krk/Veglia – la più grande dell’arcipelago croato, situata di fronte a Rijeka/Fiume – dove nel 1979 la Jugoslavia socialista iniziò la costruzione di un sistema di oleodotti e stoccaggio che entrò in competizione con le esportazioni petrolifere sovietiche.
Dal 2021, inoltre, il porto di Omisalj, il principale dell’isola, ospita anche un terminale di rigassificazione di gas naturale liquefatto (LNG), sul quale il governo croato vuole investire al punto da raddoppiare le capacità di importazioni. Il progetto, unitamente a un incremento dell’energia solare ed eolica, potrebbe rendere il Paese totalmente indipendente dalle materie prime russe, nonché uno dei principali esportatori di energia per i Paesi vicini. Ma ci sono delle criticità.
Il progetto della Croazia
“La Croazia è un leader nella diversificazione delle fonti di energia”. Lo ha detto la speaker della Camera dei rappresentanti USA Nancy Pelosi, che lo scorso 24 ottobre era a Zagabria per il summit della Piattaforma di Crimea, iniziativa diplomatica a sostegno dell’integrità territoriale dell’Ucraina. La guerra alle porte dell’UE è infatti stato il propulsore dei cambiamenti geopolitici e geoeconomici con cui la Croazia ha incrementato le importazioni di LNG dagli Stati Uniti, principale fornitore croato già da prima della guerra – con un duplice obiettivo: soddisfare interamente la domanda interna e contribuire a rendere indipendenti dal gas russo anche i Paesi vicini, come Ungheria, Bosnia-Erzegovina e Serbia.
“Aumenteremo le attuali capacità [del terminale di Omisalj, nda] da 2,9 miliardi di metri cubi di gas a 6,1, andando ben oltre le nostre necessità industriali e interne”, aveva annunciato lo scorso giugno il premier croato Andrej Plenkovic. Con i 2,9 bcm attuali, infatti, la Croazia soddisfa il proprio fabbisogno energetico. Il raddoppiamento annunciato le consentirebbe di soddisfare anche quello dei Paesi confinanti: Slovenia, Ungheria e Bosnia-Erzegovina.
Ma è realmente possibile?
Quello della Croazia come hub regionale energetico è, per ora, solo un potenziale inespresso. Ci sono infatti diversi ostacoli per il raggiungimento di questo obiettivo, di natura sia progettuale che politica. Al momento, infatti, al netto degli annunci, il governo Plenkovic non ha fornito dettagli sulle tempistiche e sugli investimenti necessari. Il che significa che al momento il terminal di Krk continuerebbe a essere fondamentale per i bisogni energetici interni, ma non per saziare completamente la domanda proveniente dai Paesi confinanti.
Analizzando i dati della Commissione europea, infatti, la Croazia, qualora prestasse fede alle promesse di raddoppiare le importazioni di LNG, potrebbe soddisfare completamente solo il fabbisogno energetico della vicina Slovenia, il cui consumo di gas nel 2020 è stato di 0,9 bcm. Mentre l’Ungheria ha un consumo di gran lunga maggiore, oltre 10 bcm. Ciò significa che Budapest potrebbe importare dalla Croazia solo una percentuale ridotta di gas, probabilmente il 20%. Quanto alla Bosnia-Erzegovina, infine, le importazioni da Krk non sembrano essere adatte al sistema bosniaco, ancora ampiamente fondato sull’uso del carbone. La transizione energetica di Sarajevo dovrebbe piuttosto concentrarsi su un passaggio dai combustibili fossili alle energie rinnovabili.
Anche su queste ultime la Croazia per ora vanta un enorme potenziale, ma senza un piano preciso. Le lunghe coste sul Mare Adriatico, così come le peculiarità territoriali, contribuiscono a dare alla Croazia un’eccellente possibilità di sviluppare risorse per produrre energia rinnovabile, soprattutto solare ed eolica. Al momento queste rappresentano il 28% del consumo finale lordo di energia, ma potrebbero superare il 50% entro i prossimi 30 anni. Un obiettivo reso possibile anche grazie agli ingenti finanziamenti dell’Unione Europea, attraverso lo EU Green Deal e al Piano nazionale di ripresa e resilienza. Tuttavia, al momento non si conoscono i piani economici per un eventuale sistema di esportazioni delle rinnovabili.
Un percorso anche geopolitico
Il raggiungimento degli obiettivi croati nella regione dovrà poi tenere conto di chi sino ad oggi ha fatto affidamento quasi esclusivamente alle importazioni dalla Russia. È il caso della Serbia, Paese candidato all’ingresso in UE che, oltre ad essere il principale alleato della Russia in Europa, dipende fortemente dalle importazioni di petrolio e gas russo acquistato a prezzi di favore. Nelle settimane scorse, la Croazia è stata bersaglio di attacchi politici – conditi da retoriche nazionaliste – secondo cui l’ex Paese jugoslavo vieterebbe alla Serbia di continuare ad approvvigionarsi del petrolio russo, obbligandola a importazioni da altri rifornitori economicamente più svantaggiosi.
Si tratta, tuttavia, di scelte non nazionali ma che rispondono alla logica delle sanzioni UE alla Russia – quelle che la Serbia si rifiuta di applicare – che dal prossimo dicembre imporranno lo stop completo alle importazioni via mare del petrolio russo e quindi anche quelle che arrivano su Krk per poi essere distribuite nel resto dei Balcani. Un’accusa infondata e che serve più come distrazione di massa per l’opinione pubblica interna serba ma che dimostra come la leadership energetica sia un percorso che, a livello regionale, trova ostacoli anche di natura politica.
In conclusione, quello della Croazia come futuro hub regionale più che un orizzonte imminente resta un obiettivo di lungo termine molto ambizioso e con diversi ostacoli, che necessita quindi di pianificazioni progressive e strutturate.