Due buone notizie per l’Europa, se… La prima buona notizia è che il trionfo della Merkel ha fermato la spinta euroscettica crescente nell’opinione pubblica tedesca. Senza il suo intelligente equilibrio tra concessioni ai partner europei e fermezza, il partito che chiede l’uscita dall’euro (AfD) sarebbe non al 4,9, ma al 20%, determinando una specie di grillismo al contrario: rifiutare l’euro perché troppo generoso verso i paesi super-indebitati ed evasori fiscali del sud Europa e non perché troppo vincolante nel senso del rigore, come pretenderebbero alcuni fatui commentatori. Non era scontato per chi conosce la stampa tedesca, e sa che AfD può contare su un bacino potenziale larghissimo e condizionerà, dall’opposizione, il prossimo governo. Quello che Ulrich Beck chiama “Merkelismo” (offendendo Machiavelli, proprio nel 500esimo anniversario del Principe), intendendo l’accorto mix di concessioni e fermezza d’impegno europeo e protezione degli interessi nazionali, ha ben pagato in termini di rafforzamento della legittimazione interna, il che in una democrazia è la base per ogni altra cosa. Gli altri governi europei perdono le elezioni in fase di crisi economica; solo la Merkel si rafforza di 8 punti. Assomiglia alla rielezione di Obama e rilancia il modello Germania nel mondo.
La leadership tedesca in Europa esce rafforzata, ma è alla prova della responsabilità. Infatti, la discussione sul ruolo europeo della Germania è molto più intensa fuori dalla Germania che tra i tedeschi, il che non va. Questo dipende anche dalla grossolanità dei partner europei e dalla loro goffaggine. A mal partito Hollande che, all’attacco un anno fa, si è dovuto arrendere all’evidenza: con risultati economici e occupazionali nettamente inferiori alla Germania resta al 20% nei sondaggi e subalterno; e Cameron, smentito dal Parlamento sull’intervento siriano e privo di strategia europea. L’Italia – se stabile – potrebbe incoraggiare con autorevolezza l’evoluzione della Germania verso la responsabilità europea, non attraverso sogni impossibili (Eurobonds, una “Transfertunion”, come i giornali tedeschi – Frankfurter allgemeine in testa – definiscono la richiesta che i tedeschi paghino i nostri debiti pubblici), un maggiore impegno tedesco su quattro fronti che corrispondono bene alla sensibilità tedesca o alle concessioni che Merkel può fare:
- completare il progetto di unione bancaria con un fondo adeguato della BCE e consolidare la linea Draghi sull’euro e la forward governance basata sull’impegno di tassi bassi, nonostante l’orientamento diverso preso dalla FED USA;
- condurre a termine il negoziato con gli USA per il TITIP transatlantico, pur salvaguardando la propria autonomia politica (Siria, protezione dei dati privati) e i partenariati con i BRICS;
- decidersi su quale unione politica la Germania vuole politicizzare in senso bipolare le elezioni parlamentari del 2014 e avere una commissione più politica; o puntare sull’efficienza, fondendo le cariche dei due presidenti (del Consiglio e della Commissione, tutte cariche in fase di rinnovo);
- la Merkel ha ben chiarito che non si fa politica estera senza la Germania e che i sogni di Saint Malô (ege-monia franco-britannica sulla difesa europea) vanno sostituti con la leadership anche politica dell’Eurozona, ma la Germania deve accettare al Consiglio europeo di dicembre un migliore coordinamento dei bilanci della difesa: senza eccessive aspettative di cambiare il pacifismo tedesco, consacrato dalle elezioni, si può tuttavia, anche per risparmiare, razionalizzare la spesa, coordinare le scelte, usare i corpi plurinazionali mai utilizzati, rendere più credibile il ruolo politico internazionale dell’UE, almeno nel near abroad.
La seconda ragione per cui le elezioni del 22 settembre possono essere una buona notizia per l’Europa è il probabile cambiamento della coalizione di governo in un senso più favorevole alla crescita. Il CDU, dopo il crollo grave dell’alleato storico di 40 anni, la FDP, che non entra in parlamento (4,7%), negozierà con i Verdi (in calo , all’8,2), ma alla fine, secondo la maggioranza degli osservatori, negozierà con la SPD. Già, di fatto, il CDU governa con la SPD, che controlla il Bundesrat, Seconda Camera, la Camera delle regioni, e ancor più sarà maggioritaria dopo l’inevitabile Grande Coalizione nell’importante regione Assia (Francoforte), dove la coalizione CDU-FDP è uscita sconfitta il 22/9.
Non sarà però facile per l’SPD accettare la Grande Coalizione. In una Grande Coalizione uno dei due maggiori partiti beneficia sempre più dell’altro. Nel 1966-69, fu Willy Brand a trarre profitto dall’esperienza di coalizione con il cancelliere CDU Kurt Georg Kiesinger, e a preparare il grande successo del 1969. Invece nel 2005-2009, l’SPD ci ha lasciato le penne, passando dal 33% al 23% dei voti, nonostante la buona prestazione e la popolarità del suo ministro delle Finanze, Peer Steinbrück. Questa volta rischierebbe di sacrificare il magro guadagno ottenuto il 22 settembre (da 23% a 25,5%), schiacciata tra una cancelliera che occupa il centro e due partiti di sinistra che la logorano ai lati. Il Prof. Thomas Meyer, direttore di Neue Gesellschaft, l’unica rivista a larga diffusione che dedica il suo ultimo numero alle responsabilità europee della Germania, commenta al telefono: «un terribile dilemma, la Grande Coalizione è buona per l’Europa, ma un suicidio per la SPD».
Ma il leader SPD, Sigmar Gabriel, potrebbe negoziare bene un punto programmatico che salderebbe gli interessi rappresentati dalla SPD con la prospettiva europea: una politica di alti salari, che corregga la pratica dei “mini-jobs” sottopagati, rilanci i consumi e il mercato interno. La Germania ritornerebbe davvero a essere una locomotiva per il continente e aiuterebbe le esportazioni e la ripresa dei partner europei, segnatamente dell’Italia. Anche il CDU è sensibile a questo tema, secondo la grande tradizione del “keynesismo timido” dell’economista Ludwig Ehrard nei decenni del miracolo economico trascinato dai salari più alti d’Europa.
Si rischierebbe di aggravare però così lo iato, fastidioso per noi, di una Germania che pratica il keynesismo, la crescita tecnologica, il welfare state più generoso in casa propria, mentre chiede l’Ordoliberalismus del puro e semplice rigore agli altri. Anche la Germania ha fatto i sacrifici e “i compiti a casa” nell’ultimo quindicennio. Ma le percezioni reciproche contano. In uno scenario virtuoso, questa nuova politica economica sociale interna potrebbe rilanciare in parallelo la prospettiva che il solo Steinbrück ha lanciato nella campagna elettorale di «un Piano Marshall per l’Europa», focalizzato su occupazione giovanile e crescita ecologica. Nel caso del Piano Marshall USA del 1947 si trattava di un «grande New deal» coerente con la politica economica espansiva interna: saprà la Germania diventare un “responsabile egemone” e non oscillare tra ripiego interno e arroganza esterna? Molto dipenderà anche dalla nostra capacità, come vicini europei, d’intensificare nei prossimi mesi la comunicazione con i partner tedeschi, diplomatici, imprenditori, università, esperti, funzionari.
* Mario Telò, Jean Monnet Chair ad personam at the Université Libre de Bruxelles; Vice President of the Institut d'Etudes Européennes