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Da Lavrov a Putin, la guerra delle parole inutili

Ugo Tramballi
07 maggio 2022

La constatazione di Yair Lapid, ministro degli Esteri israeliano, è logica. Se è vero ciò che sostiene il suo collega russo Lavrov, cioè che gli ebrei sono antisemiti, significa che le vittime dell'Olocausto – sei milioni di ebrei – si sono suicidati. Le incredibili dichiarazioni del russo, fino a quel momento un diplomatico dal pragmatico cinismo, sono la conseguenza di una realtà complessa: hanno a che vedere con l'articolato rapporto fra Israele e Russia e con la tenuta di quest’ultima nella guerra ucraina.

“Gli ebrei non sono una nazione” aveva sentenziato nel 1913 il rivoluzionario Josif Stalin nel suo “Il marxismo e la questione nazionale”. Trentacinque anni più tardi, nel 1948, il leader assoluto dell'Urss avrebbe riconosciuto lo stato d’Israele prima di Harry Truman. Il dittatore sovietico era in realtà un antisemita. Prese quella decisione per ragioni geopolitiche: voleva buttare l'impero britannico fuori dal Medio Oriente ed era convinto che nel nuovo ordine bipolare che stava prendendo corpo, il rigido socialismo del nuovo stato ebraico lo avrebbe collocato nell'orbita di Mosca.

Lo temevano anche gli Stati Uniti. George Marshall, George Kennan e l’intero dipartimento di Stato erano contrari al riconoscimento d'Israele: “Un stato ebraico in Palestina diventerebbe uno strumento dell'influenza sovietica”. Sebbene il Mapai, il suo partito, fosse d’ispirazione marxista, Ben Gurion s'identificò invece con l'Occidente e soprattutto con gli Usa che nella regione stavano sostituendo il declinante potere britannico.

Ci fu il gelo e poi la rottura delle relazioni diplomatiche. Fino a Mikhail Gorbaciov che permise a un milione di ebrei sovietici di emigrare in Israele. In ulitza Bolshaya Ordinka, la via della Grande Orda in uno dei quartieri più belli di Mosca oltre la Moscova, l'ambasciata d'Israele deserta per decenni, fu riaperta.

Poi venne Putin. “Israele è praticamente uno stato di lingua russa”, amava ripetere, almeno prima delle dichiarazioni di Lavrov. Aveva ragione. Il paese era stato fondato da ebrei dell'impero zarista: russi, ucraini, bielorussi, polacchi, lituani, lettoni. Quando nacque Israele, la lingua più parlata a Tel Aviv era il russo. Poi venne il milione d'immigrati dall'Urss all'inizio degli anni '90: medici, ingegneri, scienziati, fisici, musicisti; col tempo anche oligarchi di origini ebraiche con la doppia cittadinanza, come Roman Abramovic. È per questo – ma non solo – che Israele è sempre stato circospetto nell'applicazione delle sanzioni contro la Russia.

Perché dunque le affermazioni di Sergei Lavrov che all'inizio della guerra sembrava il più cauto nel sinedrio del Cremlino? L’anima tradizionalmente antisemita dei russi (apparentemente non di Putin) o la risposta inconsulta al sostegno politico all'Ucraina, per lui un tradimento, non bastano a spiegare la fragorosa assenza di senso diplomatico di Lavrov. Il giornale israeliano Haaretz sostiene che la Russia ha voluto compiacere l'Iran. Ma non è Teheran che può risolvere l'isolamento economico di Mosca.

La risposta è forse in una debolezza sempre più difficile da nascondere; nell'assenza di un vero piano alternativo dopo il fallimento di quello originario di una rapida invasione dell'Ucraina. Le uscite di Vladimir Putin in queste settimane non sono state più edificanti di quelle del suo ministro degli Esteri. Come quando ha minacciato chi si oppone alla sua “operzione speciale” in Ucraina: permettersi d'interferire “porterà a conseguenze come non le avete mai sperimentate nella storia”. O allo stadio Luzniki di Mosca la citazione del Vangelo secondo Giovanni 15:13, per dare una dimensione di fede all'invasione dell'Ucraina: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. 

Durante il ritiro russo da Kyiv e dal Nord dell'Ucraina – una sconfitta – la Russia aveva lanciato Sarmat, il nuovo missile balistico intercontinentale supersonico: dal cosmodromo di Plesetsk quasi al confine finlandese, alla penisola di Kamchatka nell’Estremo Oriente in un batter d'occhio. Se lanciato in direzione opposta, verso Occidente, “può colpire Berlino in 106 secondi”.

Se avete guardando i filmati del lancio offerti da ogni angolazione, vi sarà venuta in mente la Corea del Nord: un paese fallito sotto tutti gli aspetti se non nel lancio dei suoi missili sempre più veloci, sempre più lontano nel Mar del Giappone; una specie di avanspettacolo del potere, se non fosse così pericoloso.

“Un'arma davvero unica...Costringerà coloro che minacciano il nostro paese a pensarci due volte”. Non l'ha detto Kim Jong-un ma Vladimir Putin, padrone del più grande arsenale atomico del mondo, di gas e petrolio che presto avranno bisogno di nuovi acquirenti, e di poco altro. Una volta c'era anche un esercito ritenuto imbattibile: ora non più. Ma la minaccia continua.

      

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Ugo Tramballi
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