Lo “spegnimento” di tutte le attività federali non essenziali, firmato da Obama lo scorso 1° ottobre, rappresenta la terza grave crisi politica attraversata dagli Stati Uniti nel 2013. Shutdown è il termine tecnico con cui in questo caso abbiamo imparato a familiarizzare, ma, a gennaio prima e a marzo poi, era già stata la volta rispettivamente del fiscal cliff (il baratro fiscale dovuto alla coincidenza tra l’aumento delle tasse e la scadenza di tutta una serie di esenzioni) e del sequester (l’automatico scatto di ingenti tagli lineari su istruzione, difesa e servizi sociali). Tre momenti di totale stallo politico, diversi tra loro per la posta in gioco implicata, ma sostanzialmente legati da un medesimo filo conduttore: il perdurante scontro aperto tra Repubblicani e Democratici su fiscalità e spesa federale. Se i due precedenti erano stati delle vere e proprie “pistole alla tempia” che entrambi gli schieramenti avevano voluto calendarizzare per costringersi a trovare un accordo di revisione del bilancio americano, affetto da deficit sempre più cronici, il casus belli che ha portato allo shutdown è stato invece l’ultimo atto del braccio di ferro sulla riforma sanitaria targata Obama.
Il meccanismo andato in scena è noto: da un lato la Camera, controllata dai Repubblicani, ha avanzato soltanto proposte di budget che prevedessero anche un rinvio o un ridimensionamento dell’Obamacare; dall’altro il Senato, a maggioranza democratica, le ha sistematicamente respinte. Senza un accordo, niente legge finanziaria e quindi shutdown: non succedeva dal 1996, quando a scontrarsi furono Bill Clinton e lo speaker della Camera Newt Gingrich. Un vero e proprio cortocircuito politico aggravato dal rischio ben più preoccupante, considerate le devastanti ricadute prevedibili sull’economia americana, che la medesima dinamica (in questo caso la minaccia del default per ottenere i tagli di spesa desiderati) si estendesse anche ai negoziati in corso per l’innalzamento del tetto del debito. Al cosiddetto debt ceiling, e quindi al quarto tecnicismo che la politica americana sta ingloriosamente “esportando” nel mondo in questi ultimi tempi.
A guidare il fronte dell’indisponibilità a cedere al “ricatto” repubblicano è stato direttamente Barack Obama, deciso a difendere quella riforma sanitaria, approvata nel 2010 e ora in procinto di entrare in vigore, sulla quale la sua presidenza ha voluto giocare, e ancora si gioca, un’ampia fetta di credibilità. Scegliendo la strada della fermezza e quindi lasciando che la crisi precipitasse nello shutdown, il presidente ha puntato a smascherare il gioco dei Repubblicani, specie quello messo in atto dall’ala radicale del Tea Party. Una strategia ben diversa da quella dell’estate del 2011, quando Obama, pur di sbloccare il primo muro contro muro della sua presidenza sull’aumento del tetto del debito (che comunque costò il clamoroso declassamento da parte di Standard & Poor’s), aveva accettato un accordo fortemente sbilanciato su posizioni di destra. Il “trionfo del Tea Party” aveva titolato polemicamente il Wall Street Journal, ma il coro di critiche verso l’arrendevolezza dimostrata dal presidente fu praticamente unanime. Se tuttavia, allora, pesava su Obama lo spettro di un default che ne avrebbe potuto compromettere le chance di rielezione, oggi il presidente ha scelto di affiancare all’intransigenza negoziale anche una controffensiva retorica molto più dura, finalizzata da un lato a far scoppiare le contraddizioni in seno ai Repubblicani, dall’altro a spiegare all’opinione pubblica americana l’assurdità dell’impasse politica e l’inaccettabilità di un ricatto giocato sulla loro testa. Una controffensiva che, d’altra parte, risulta dagli ultimissimi sondaggi essere stata premiata con più della metà degli americani concorde nell’attribuire ai Repubblicani le colpe dello shutdown e solo un 20% che dichiara di vedere favo-revolmente il movimento del Tea Party.
Sondaggi a parte, a ogni modo, soltanto nelle prossime ore potremo sapere chi, e di quanto, avrà prevalso: le posizioni sono note e quindi basterà leggere i termini dell’accordo, che con tutta probabilità sarà raggiunto in extremis, tanto sulla questione del debito quanto su quella del budget. Quello che invece si può fare fin da subito è provare a capire come sia possibile che la più recente politica made in Usa sembri far rima soltanto con lotte congressuali senza esclusioni di colpi; sembri aver smarrito quell’arte del compromesso bipartisan che è sempre stata una delle sue cifre più caratteristiche; sembri aver clamorosamente perso la capacità di saper guardare al tanto celebrato national interest. Almeno tre sono i rilievi necessari.
In primis è d’obbligo richiamare una ragione strutturale, che opera come fattore permissivo all’innesco di tali cortocircuiti: nel sistema politico americano, infatti, sono previsti periodi di coabitazione, quando cioè il presidente, che non è sfiduciabile per via politica e che comunque detiene il potere di veto rispetto a proposte di legge già licenziate dal Congresso, si trova a dover interagire con una o entrambe le Camere non più nelle mani del suo partito: esattamente la situazione in cui Obama si è trovato a operare dal 2010 a oggi. Ora, chiaramente, è proprio l’esistenza di un siffatto sistema ad aver favorito in tutta la storia americana lo sviluppo di una prassi politica capace di mediazioni, incline al compromesso e avvezza ai negoziati bipartisan: i possibili esempi sarebbero infiniti. Ma in alcune occasioni, quando cioè alla coabitazione si somma la messa in discussione di uno di quei pochi temi su cui i due partiti costruiscono il proprio posizionamento politico, il rischio di impasse diventa molto alto, in qualche misura sistemico. E quello della riforma sanitaria, in quanto declinazione paradigmatica della differente visione che i due partiti tradizionalmente hanno della dimensione dello stato federale e del suo rapporto con la società americana, è esattamente uno di questi temi. L’Obamacare, detto in altro modo, è stata e continua a essere la principale linea di trincea su cui i due partiti hanno scelto di fronteggiarsi dal 2008.
Per individuare la seconda ragione, di natura più contingente, serve invece rivolgere lo sguardo all’interno della galassia repubblicana, da dove cioè si è effetti-vamente originata la crisi: non solo quindi riconoscendone la frattura tra una minoranza radicale (identificabile, per semplicità, con il Tea Party) e una maggioranza più pragmatica e moderata, ma anche evidenziando come in questo momento la prima abbia una capacità di condizionamento dell’intero schieramento repubblicano ben più forte di quanto sembrerebbero suggerire i meri rapporti numerici. Degli attuali 233 parlamentari repubblicani alla Camera, infatti, sono solo una trentina quelli riconducibili al Tea Party, cui vanno aggiunte almeno altre due o tre decine che ne stanno sostenendo strategie e posizioni, mosse più dalla necessità di coprirsi da sfidanti di destra nei propri collegi elettorali, che da una adesione programmatica e valoriale.
È tuttavia la combinazione di altri due fattori a conferire a questo gruppo, effettivamente minoritario, una forza contrattuale inusuale: per un verso l’esiguità della maggioranza repubblicana alla Camera, per l’altro la solidità dimostrata fino a ora dall’opposizione democratica. Se, infatti, la soglia di maggioranza è fissata a 217 voti e i 200 deputati democratici si muovono puntualmente in maniera unitaria, i trenta voti dei Tea Party diventano decisivi perché, nella Camera, i Repubblicani mantengano la capacità di far approvare autonomamente proposte di legge, risul-tando di conseguenza determinanti nel conferire forza e potere nelle mani dello speaker John Boehner. Ma non è tutto: considerata, infatti, la sua alta capacità di mobilitazione della base repubblicana, dal livello locale a quello online, il Tea Party fin dalla sua nascita ha sempre saputo esercitare una notevole influenza nell’indirizzare il dibattito, l’elettorato e, indirettamente, il baricentro del partito. Una lezione che già non pochi membri del Congresso e rappresentanti dell’establishment repubblicano hanno amaramente dovuto imparare nelle primarie elettorali del 2010 e del 2012.
Ora, se si coniuga questa forza contrattuale a quell’oltranzismo tattico scelto come marchio di fabbrica, s’intuisce immediatamente da dove si sia originato il muro contro muro che ha portato allo shutdown. Specie considerando come proprio la campagna per tagliare la spesa pubblica e contro l’ingerenza federale, esemplificata al massimo grado nell’opposizione a una riforma come quella dell’Obamacare, rappresenti il terreno d’elezione identificato dal Tea Party per lanciare la propria sfida interna a un partito che sa di essere minoranza nel paese e che è alle prese con un’incerta fase di ripensamento e rinnovamento.
Prima di concludere, infine, può essere utile presentare ancora un’ultima spiegazione, che di nuovo opera come fattore permissivo, ma che, a differenza di quella sul sistema politico interno prima accennata, muove a partire dall’attuale natura del sistema internazionale.
Si tratta di un tipico argomento di stampo realista (non a caso di recente richiamato da Stephen Walt, dal suo blog su Foreign Policy), che sostiene esista una sorta di proporzione inversa tra il livello di sicurezza esterna di uno stato e la sua forza domestica. L’attuale fase convulsa della politica americana, secondo tale visione, andrebbe, infatti, letta come uno degli effetti strutturali ancora riconducibili alla fine della guerra fredda. La scomparsa della minaccia sovietica e la fortunata condizione di sicurezza su cui da allora gli Stati Uniti possono contare, cioè, starebbero spingendo parte della politica e del pubblico americano a ritenere sempre meno necessario uno stato centrale forte; a mettere a rischio la coesione nazionale nel perseguimento di agende sempre meno coincidenti e sempre più arroccate su capricci ideologici; a perdere di vista in sostanza lo stesso interesse nazionale, ritenuto sacrificabile proprio perché meno cogente e categorico. Da qui allo shutdown, al rischio default, all’incomunicabilità tra fazioni, all’irresponsabilità politica ecc., a tutte quelle crisi cioè che stanno caratterizzando la politica statunitense e, a ben guardare, anche quella europea, il passo non sembra effettivamente così azzardato.