La successione alla direzione generale del Fondo monetario internazionale, dopo le dimissioni di Strauss Kahn, è stata l’occasione per il riaffiorare di una contesa politica, comunque sempre latente in questo primo scorcio di XXI secolo, che vede opposti da un lato le volontà e le pretese del mondo occidentale, dall’altro quelle delle principali potenze emergenti, con in testa il gruppo dei paesi BRICs. Motivo del contendere è stata la messa in discussione da parte di questi ultimi di una prassi, o se si vuole un accordo informale, vigente tra Europa e Stati Uniti in base alla quale la direzione delle due principali istituzioni finanziarie internazionali – il Fondo monetario e la Banca mondiale – è sempre stata di loro esclusiva spettanza. Tradizionalmente il primo agli europei e la seconda agli statunitensi.
I BRICs e il gruppo degli emergenti hanno puntato a sollevare una questione di legittimità, sostenendo infatti che perpetrare un criterio di selezione per la guida del Fondo sulla base della nazionalità e non sulla base di una reale selezione del merito delle candidature, avrebbe minato la stessa credibilità di un’organizzazione di cui fanno parte ben 187 stati e che svolge un ruolo cardinale nella gestione dell’economia e dei mercati monetari mondiali.
Al di là dei tecnicismi, che pure a ben guardare possono essere considerati un aspetto cruciale della questione dal momento che riguardano le differenti quote del Fondo possedute dai membri e i relativi pesi nei meccanismi decisionali, lo scoppio della divergenza va a toccare uno dei nervi maggiormente scoperti delle relazioni internazionali. Un nervo che, al di là di quanto dichiarato dal gruppo dei BRICs e di quanto possa apparire a uno sguardo superficiale, non concerne, se non solo per via indiretta, né il grado di legittimità dell’organizzazione né tantomeno la reale esigenza di trovare un candidato con uno skill adeguato, ricerca senz’altro non difficile sia sulla sponda europea sia su quella dei paesi emergenti.
Sul piatto della bilancia, piuttosto, c’è ben altro e, come detto, si tratta di qualcosa che interessa il cuore delle dinamiche politiche e relazionali della politica internazionale: il tema del mutamento dei rapporti di potere e potenza rispetto a quello dei rapporti di status o prestigio. Da una parte, infatti, ci sono due attori che, forti di un privilegio affermatosi più di sessant’anni fa, non ritengono sia ancora arrivato il momento di rinunciarvi; dall’altra, invece, si ritrovano a parlare all’unisono tutti quegli stati protagonisti di una rapida ascesa nelle gerarchie mondiali di potenza, specie di tipo economico, che soffrono di una sorta di inconsistenza di status e aspirano a una redistribuzione dei ruoli nel “governo” del mondo. Sul punto rimangono invalse le parole e gli insegnamenti di uno dei più autorevoli professori di relazioni internazionali, Robert Gilpin. Il politologo di Princeton, infatti, nel suo capolavoro teorico Guerra e Mutamento nella politica internazionale, ha già dimostrato come sia naturale che le forze e le capacità degli stati crescano in maniera diseguale nel tempo e producano inevitabilmente frizioni con la gerarchia esistente del prestigio tra stati («dove il prestigio rappresenta la reputazione di cui si gode per il potere che si possiede»). Quest’ultima, infatti, cambia più lentamente dei rapporti di potere che l’avevano determinata, dal momento che le percezioni del prestigio di uno stato, o di un gruppo di stati, sono in ritardo rispetto ai cambiamenti che si sono verificati nella sfera delle capacità effettive: tale dinamica determina il connotarsi di potenze in ascesa che si caratterizzano per le loro aspirazioni “revisioniste” e che possono entrare in rotta di collisione con quelle che, invece, significativamente possono essere definite “potenze dello status quo”. Se per comprendere la reale posta in gioco che anima le rivendicazioni dei paesi emergenti ci si è riferiti a Gilpin, è allo stesso modo possibile chiamare in causa un altro eminente studioso delle relazioni internazionali per chiarificare anche la prospettiva, e per qualche misura la conseguente posizione, degli attori difensori dello status quo. Nel suo libro più celebre, Dopo la vittoria, il liberale statunitense John Ikenberry descrive infatti come il ricorso a logiche istituzionali nell’organizzare l’ordine internazionale che segue una guerra generale da parte degli stati vincitori, vada direttamente a incidere sull’efficacia, la durata e la stabilità del nuovo ordine. Caratteristica tipica degli accordi istituzionali, infatti, è proprio la loro capacità di fissare e stabilizzare nel tempo i rapporti di potere, secondo una dinamica peculiare dove gli stati più forti scambiano con i più deboli moderazione nell’utilizzo della potenza contro disponibilità a collaborare: una sorta di scambio vantaggioso tra i “dividendi del potere” di breve periodo e i “dividendi istituzionali” di lungo periodo. Una dinamica quindi ben precisa che da un lato produce un vantaggio immediato, cioè mette al riparo gli attori più vulnerabili dalle due loro principali preoccupazioni – il rischio di essere dominati e quello di essere abbandonati da parte dell’egemone o della coalizione di stati vittoriosa – dall’altro produce naturalmente benefici differiti nel tempo per quelli più forti, specie quando le loro effettive capacità saranno declinate.
Il passo necessario per tornare da qui alla successione a Strauss Kahn non è poi così azzardato: se oggi infatti è innegabile che il differenziale di potenza tra il blocco Stati Uniti-Europa rispetto al resto del mondo si è notevolmente assottigliato, specie per quanto riguarda la sfera economica, è allo stesso tempo impossibile non riconoscere come il Fondo monetario o la Banca mondiale rappresentino due istituzioni, cardini di un ordine internazionale che dal 1989 in avanti si è esteso a tutto il mondo, dove è naturale, e forse anche legittimo, che si concentrino tanto le aspirazioni delle nuove potenze in ascesa, quanto le rendite di status da parte dei suoi più importanti fondatori.
Pochi giorni fa il comitato esecutivo del Fmi ha scelto la francese Christine Lagarde come prossima direttrice del Fondo: è chiaro che non sarà questa nomina a decretare l’esito finale delle divergenze tra vecchie e nuove potenze, né tantomeno a sancire i rapporti di forza tra le ragioni del mutamento à la Gilpin o di quelle della continuità à la Ikenberry.
Piuttosto, a conclusione di questo ragionamento, può essere utile ricordare come un altro importante round, che ha sostanzialmente ricalcato una grammatica simile a quella appena descritta, si sia già disputato due anni fa, quando il principale forum politico di discussione dell’economia mondiale è passato dal G7, dove sedevano sette potenze industriali tutte occidentali, al G20, il nuovo forum che ha incluso, tra gli altri, stati come Cina, India, Brasile, Sudafrica, Messico, Corea del Sud e Turchia. In questo storico passaggio furono determinanti i contraccolpi della crisi internazionale, che aveva travolto l’economia mondiale a partire dai mercati finanziari statunitensi, e i nuovi imperativi dettati dalla necessità di porvi adeguato rimedio: l’entità della risposta da mettere in campo, infatti, non poteva più fare a meno e continuare a escludere oltre il 30% della ricchezza mondiale e più della metà della popolazione del pianeta. Aggiungere “invitati” intorno al tavolo delle discussioni, tuttavia, significa in qualche modo fare i conti con una nuova redistribuzione del potere mondiale, mentre rinunciare alla direzione di un organismo internazionale cruciale come il Fondo, specie in un momento tanto delicato per la stabilità monetaria dell’Europa, significa ridimensionare il proprio prestigio e accordarne una fetta consistente nelle mani di qualcun altro. Ed è inevitabile che aspettative e resistenze si addensino, e continueranno a farlo, proprio su questo secondo piano, specie se si considera, affidandoci un’ultima volta a Gilpin, «che il prestigio, più che il potere è la moneta corrente nelle relazioni internazionali».