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Focus Mediterraneo allargato n.14
Dal piano Trump agli accordi di Israele con Emirati Arabi Uniti e Bahrain
Giuseppe Dentice
23 settembre 2020

Il 2020 ha rappresentato un anno importante per il Medio Oriente e in particolare per le evoluzioni nel processo di pace israelo-palestinese. La proposta di pace statunitense rappresentata dal cosiddetto “accordo del secolo”, l’annuncio di un piano unilaterale israeliano di annessione dei territori occupati in Cisgiordania e gli accordi di normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e le monarchie arabe del Golfo di Emirati Arabi Uniti (Eau) e Bahrain rappresentano sì degli elementi importanti rientranti anche nella cornice del processo di pace mediorientale (Mepp), ma più verosimilmente essi si inseriscono come parte di una più ampia iniziativa diplomatica promossa dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump e dalla sua amministrazione. Non a caso, la presentazione della proposta di pace statunitense per il Medio Oriente – avvenuta alla presenza del premier israeliano Benjamin Netanyahu e degli ambasciatori di Oman, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti – ha fornito il retroterra ideologico sul quale si sono innestate le successive iniziative. Una sorta di placet alla proposta unilaterale israeliana di annessione di circa il 30% della Cisgiordania e all’intesa sulla normalizzazione dei rapporti bilaterali tra Tel Aviv, Abu Dhabi e Manama. Accadimenti dall’indubbio valore politico che tuttavia potrebbero aver dischiuso la porta a una nuova stagione di instabilità non solo all’interno del caotico Mepp, ma anche nelle asimmetriche dinamiche regionali ad esso collegate.

Il presente approfondimento pertanto mira a illustrare non solo le evoluzioni recenti nelle dinamiche relative alla questione israelo-palestinese, ma anche a descrivere la fluidità del contesto mediorientale nel quale indubbiamente si inscrivono gli ultimi avvenimenti, intendendoli appunto come fattori funzionali alla competizione intra-regionale esistente, che danneggia in primis le deboli speranze che circondano il Mepp.

 

Accordo del secolo

Questa disamina approfondita non può non partire dall’analisi del testo del “Peace to Prosperity”, ossia il nome ufficiale della proposta di pace Usa per il Medio Oriente, anche nota come “accordo del secolo”[1]. Dal punto di vista operativo, il voluminoso documento di 181 pagine presenta chiaramente un doppio framework (politico ed economico), nel quale emergono almeno quattro punti critici:

  1. Israele mantiene la stragrande maggioranza di Gerusalemme come sua capitale sovrana e indivisa, lasciando ai palestinesi la periferia della città (in pratica l’area di Abu Dis) come loro capitale;
  2. I palestinesi non vedono riconosciuto alcun diritto al ritorno;
  3. Vengono ridisegnati i confini principalmente tra Israele e Cisgiordania, con i primi che annettono anche la valle del fiume Giordano, un’area fertile che rappresenta circa il 30% del territorio stesso, in cambio di piccole aree desertiche nel Negev vicino al confine con il Sinai e alcuni villaggi del cosiddetto “triangolo arabo”[2];
  4. È sancita la creazione di uno stato smilitarizzato per i palestinesi.

A questi elementi meramente politici si affiancano le disposizioni economiche, che prevedono, tra le altre cose, investimenti per 50 miliardi di dollari nei Territori occupati, senza spiegare bene come e dove verranno investiti questi fondi e senza affrontare i problemi esistenti sul terreno, come la situazione umanitaria al collasso nella Striscia di Gaza o la scarsa libertà di circolazione dei palestinesi in Cisgiordania. L’intero accordo finale dovrà essere negoziato nell’arco temporale di un quadriennio, nel quale gli israeliani si impegnano, seppur senza alcun tipo di vincolo concreto, a congelare qualsiasi nuova costruzione di insediamenti nei territori occupati. 

Se il piano Trump rappresenta, almeno in linea teorica, un’ipotesi di lavoro dalla quale partire per negoziare un accordo definitivo tra le parti, di fatto esso si presenta invece come un’intesa già definita che va sostanzialmente incontro agli interessi israeliani. Al di là della retorica sulla “svolta storica” in grado di garantire pace e stabilità al Medio Oriente intero, il piano non sembra prefigurarsi come un atto “equo” o “super-partes”, né tantomeno sembra essere orientato a favorire una negoziazione futura nella quale inscrivere le trattative vere e proprie tra le delegazioni israeliana e palestinese. Il documento finale, quindi, sembra fortemente improntato a favorire le istanze pro-israeliane, ignorando in tutto o in parte le rimostranze palestinesi. Un esempio concreto di ciò è il riconoscimento degli insediamenti ebraici come parte integrante della territorialità israeliana, lasciando alla futura entità statale palestinese uno spezzatino territoriale non continuo geograficamente e più simile a delle enclaves in territorio israeliano. L’intero accordo, infine, non riconosce in maniera chiara il ruolo che potranno assumere i palestinesi nella gestione economica e politica e su quali territori far valere queste azioni. In altre parole, la proposta di pace USA enfatizza e celebra le necessità di sicurezza israeliana, sacrificando il diritto palestinese all’autodeterminazione.

 

Piano unilaterale israeliano di annessione della Cisgiordania

Secondo step nell’evoluzione del Mepp è la proposta di annessione unilaterale israeliana dei territori sottoposti a regime di occupazione militare e così riconosciuti dalla comunità internazionale in Cisgiordania. Quasi sei mesi dopo la presentazione del piano Trump, Israele ha avanzato una sua iniziativa che si inseriva in continuità ideologica con l’“accordo del secolo”. Il piano del governo non è ancora stato ufficialmente presentato né alle istituzioni nazionali né all’opinione pubblica, ma dalle indiscrezioni di stampa emerse in questi mesi esso sembra assomigliare molto al piano di pace proposto qualche mese prima dall’amministrazione statunitense di Donald Trump.

Nella fattispecie, dal 1° luglio il nuovo governo israeliano avrebbe potuto dare avvio all’annessione di gran parte dei 132 insediamenti ebraici disseminati in Cisgiordania; si tratta, secondo molti, di un primo passo per un processo rapido che sfocerà nel possibile inglobamento anche della Valle del Giordano, specie se a novembre Donald Trump venisse riconfermato alla presidenza degli Stati Uniti, rischiando così di aprire ulteriori tensioni regionali, anche con Amman. È bene ricordare che a oggi i Territori palestinesi sono regolati dagli Accordi di Oslo del 1993, secondo cui la Cisgiordania è divisa in tre settori amministrativi, denominati aree A, B e C. Nello specifico, l’area A (pari al 18% della Cisgiordania) è sotto il controllo civile dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). L’area B (circa il 22%) viene amministrata in modo congiunto da Israele e Palestina, mentre l’area C (pari al 61% della Cisgiordania e nella quale ricade anche la Valle del Giordano) è controllata da Israele.

Sempre secondo indiscrezioni di stampa, il piano israeliano dovrebbe invece portare alla sola annessione di tre insediamenti (Maale Adumim, Gush Etziom e Ariel – quest’ultimo ha addirittura una sua università non riconosciuta internazionalmente). Questi sono i tre più antichi e popolosi, che si trovano nei pressi di Gerusalemme e Nablus. Alla base di tale “opzione light” (così definita anche dallo stesso ministro della Difesa Benny Gantz) vi sarebbero una serie di timori legati alla sicurezza interna israelo-palestinese (scontri in Cisgiordania tra villaggi arabi e colonie israeliane lì vicine, come già avviene da qualche mese a questa parte) e, soprattutto, sul piano regionale a un possibile incrinamento della convergenza tattica regionale con le monarchie arabe del Golfo (Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, su tutti) e con i vicini Giordania[3] ed Egitto.

Se dovesse attivarsi in questi termini, il piano metterebbe sempre più in un angolo la cosiddetta “soluzione dei due stati”, che dal 1967 la comunità internazionale considera la base di compromesso per risolvere la disputa territoriale fra israeliani e palestinesi, seppur favorendo il tutto attraverso una soluzione unilaterale non definita.

 

Accordo di normalizzazione dei rapporti di Israele con Emirati Arabi Uniti e Bahrain

Terzo e ultimo elemento di riflessione sono gli accordi diplomatici stretti da Israele con Eau e Bahrain. Il primo, l’accordo israelo-emiratino (noto anche come Abraham Accord) è stato concluso il 13 agosto tra i governi di Israele ed Eau, con una mediazione interessata degli Stati Uniti che, per voce del presidente Trump, hanno fortemente sponsorizzato l’intesa dandole un’investitura “storica”. Oltre a prevedere lo scambio degli ambasciatori, l’accordo porterebbe alla firma di importanti protocolli bilaterali sul piano del commercio internazionale e marittimo, della sicurezza, del turismo, della tecnologia e delle telecomunicazioni, ma anche nei settori dell’agricoltura, dell’intelligence, della difesa, della sanità e dell’energia[4]. Tuttavia un aspetto molto importante sul piano simbolico e politico e – peraltro non debitamente affrontato – è quello relativo all’ambasciata: essa sorgerà a Gerusalemme o a Tel Aviv? È palese che una scelta del genere pregiudicherebbe, e non poco, l’immagine pubblica araba degli Eau, ma darebbe anche un segnale molto forte sulla possibile tendenza da seguire a livello regionale, soprattutto qualora altri paesi decidessero di accodarsi alla “svolta” emiratina. Se da un lato il primo volo commerciale da Tel Aviv ad Abu Dhabi e la firma di un decreto che annulla una legge emiratina sul boicottaggio di Israele, permettendo accordi commerciali e rapporti finanziari tra i due paesi, rappresentano appunto un restart nelle relazioni bilaterali con riflessi molteplici su più piani, dall’altro l’alt giunto dagli Eau, che hanno annullato un incontro trilaterale con Israele e Stati Uniti il 24 agosto, come rappresaglia contro l'opposizione pubblica del primo ministro Benjamin Netanyahu alla vendita di aerei da combattimento F-35 di Washington ad Abu Dhabi, testimonia anche la difficoltà e le pressioni molteplici esistenti su entrambi i fronti, nonché quanto gli interessi in gioco possano nuocere notevolmente alla stessa strategia regionale Usa[5].

Neanche un mese dopo, il Bahrain ha seguito l’esempio emiratino ed è diventato il secondo paese arabo del Golfo ad accettare di normalizzare i legami con Israele. Già nelle settimane precedenti l’intesa, pur mantenendo forte l’accento sul nodo palestinese, Manama aveva aperto a tale ipotesi, tanto da concedere l’uso del proprio spazio aereo a Israele sin dall’intesa con Abu Dhabi del 13 agosto. Come spiega il comunicato della Casa Bianca, che definisce storico anche questo accordo, oltre a scambiarsi gli ambasciatori e ad aprire una rappresentanza diplomatica ufficiale (anche qui non si spiega se la controparte araba la aprirà a Gerusalemme o a Tel Aviv), le parti lanceranno iniziative di cooperazione in una vasta gamma di settori, tra cui salute, affari, tecnologia, istruzione, sicurezza e agricoltura[6]. Il 15 settembre, Emirati Arabi Uniti e Bahrain hanno normalizzato formalmente i legami con Israele, firmando una dichiarazione ufficiale.

Pur richiamandosi al contesto del Meep, i due accordi sono estremamente diversi rispetto ad altre iniziative del passato (ad esempio gli accordi – questi sì di pace – con Egitto del 1979 e Giordania del 1994). Infatti, gli accordi in questione non avvicinano né allontanano le prospettive di pace in Medio Oriente, ma rappresentano un elemento di novità nella misura in cui gli stessi sono legati a fattori multipli non direttamente centrali alla questione palestinese e, invece, molto più attinenti alla geopolitica e alla geo-strategia regionale. In questo senso, gli accordi tra Israele-Eau-Bahrain sembrano prefigurarsi come dei moltiplicatori di situazioni limite, con effetti ben visibili già nel breve-medio periodo. In sostanza, sono queste delle intese che ingarbugliano e allo stesso tempo rischiano di aprire nuove faglie di tensioni, nelle quali però il nodo palestinese scivola sempre più in una condizione di anonimato, aprendo una stagione di nuova normalità.

Nella fattispecie, sono da seguire con particolare attenzione le evoluzioni nei rapporti tra Israele e gli altri membri del Consiglio di cooperazione del Golfo, come Arabia Saudita e Oman. Benché coinvolti nei processi ufficiosi di mediazione, Riyadh e Mascate potrebbero non seguire gli esempi di Manama e Abu Dhabi, almeno non nell’immediato e, comunque, non prima delle presidenziali Usa del 3 novembre. Da un lato, l’Oman appare più interessato a mantenere relazioni ambivalenti con Israele, anche in virtù del suo ruolo regionale di “terza via” con l’Iran; dall’altro, l’Arabia Saudita, pur seguendo con estremo interesse gli sviluppi lungo l’asse Tel Aviv-Abu Dhabi-Manama, non sembra interessata a compiere in tempi brevi un passo diplomatico analogo a quello dei suoi vicini, anche per gli importanti riflessi che un’azione simile avrebbe sul piano interno politico e di sicurezza di Riyadh, non solo quindi in termini di opinione pubblica. La normalizzazione potrebbe inoltre avere importanti attori interessati anche nel quadrante arabo-africano, con i quali Israele da tempo punta a migliorare se non addirittura a ridefinire i rapporti ufficiali. A oggi Sudan e Marocco sembrerebbero i paesi più accreditati a un possibile reset nei rapporti con Israele. Soprattutto, Rabat potrebbe dare effettività a una situazione di distensione già nei fatti esistente, anche in virtù dell’importante comunità ebraica marocchina, parte importante nella storia e nella società israeliana.

Di fatto, gli accordi di Israele con Eau e Bahrain si presentano come due iniziative in grado di imprimere una certa svolta negli allineamenti regionali, senza stravolgere però il quadro politico dei rapporti già emerso nella regione all’indomani del Jcpoa, ossia la firma dell’accordo sul nucleare iraniano tra paesi 5+1 e Teheran, nel luglio 2015.

 

Posizioni e prospettive delle iniziative diplomatiche a confronto

Alla luce della rapida disamina degli eventi, emerge chiaramente la presenza di una molteplicità di dimensioni politiche – un piano interno sia ad Israele sia al fronte palestinese, uno propriamente regionale e, infine, uno internazionale – che esprimono in pieno le difficoltà emerse sino a ora.

Tuttavia, il percorso sin qui delineato aveva, in verità, già subito un primo sussulto nel febbraio 2017, quando il presidente Trump, in occasione di un incontro ufficiale alla Casa Bianca con il primo ministro israeliano Netanyahu, annunciò di voler abbandonare la tradizionale posizione Usa favorevole alla “two states solution” per inseguire un riconoscimento pieno dell’opzione ad unico stato. Gli accadimenti successivi sono stati, quindi, solo una conseguenza logica di tale processo, rilanciati con il riconoscimento statunitense di Gerusalemme quale capitale indivisa dello stato di Israele (dicembre 2017), lo spostamento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme (maggio 2018), il riconoscimento Usa delle alture del Golan come territorio sovrano dello stato di Israele (marzo 2019) e, infine, la dichiarazione del segretario di Stato, Mike Pompeo, il quale annunciava che l’amministrazione Trump era favorevole a considerare gli insediamenti israeliani in Cisgiordania come un qualcosa di non contrario al diritto internazionale (novembre 2019).

Di fatto le proposte emerse nel corso del 2020 nascono, si evolvono e si sedimentano su questo substrato, somigliando più a un azzardo politico che a un tentativo equo di risoluzione pacifica del più antico conflitto internazionale. In tal senso, il rischio concreto è di trovarsi dinanzi a una “visione di parte” che possa alimentare nuove tensioni, dando vita a una fase diversa del conflitto, non solo dal punto di vista politico. Pertanto, il piano Trump, la proposta di annessione israeliana e gli accordi di normalizzazione dei rapporti tra Israele, Eau e Bahrain rappresentano dei tasselli di una strategia condivisa da più attori, volta a consolidare uno “status quo viziato”, che possa portare ad un’accettazione più o meno placida di un processo già di per sé normalizzato sul campo.

 

Due visioni divergenti: Israele e Palestina rispetto agli ultimi eventi

La posizione israeliana – Le reazioni israeliane alle iniziative diplomatiche sorte in questi mesi non sono state così scontate come si potrebbe pensare. Un elemento alquanto emblematico di questa condizione è proprio la formazione del governo bifronte Netanyahu-Gantz, che ha faticato enormemente a vedere la luce a causa delle profonde divergenze di opinione non solo sulla gestione degli affari prettamente interni a Israele, ma anche e soprattutto sul compromesso sorto in seno all’esecutivo in merito alle ambigue linee guida da adottare sull’annessione unilaterale della Cisgiordania. Se da un lato, Netanyahu, sta soppesando il valore politico che una tale mossa potrebbe avere in termini di guadagno elettorale, dall’ altro Gantz sta cercando di plasmare il processo decisionale relativo all’annessione senza dare al primo ministro il pretesto per sciogliere il governo. Una tensione che ha portato l’esecutivo a bloccare temporaneamente il progetto di annessioni dei territori della Cisgiordania, la cui sospensione ha fatto infuriare la destra ultra-nazionalista. Una scelta forse dettata anche dalla necessità di non interrompere il dialogo con gli attori del Golfo, con i quali erano sorte alcune tensioni proprio in prossimità della data del 1° luglio[7].

In questo senso, l’accordo con Eau e Bahrain giunge in soccorso di Netanyahu, essendo stati presentati come dei grandi successi in chiave interna. Entrambi gli accordi infatti aiutano il premier, garantendogli qualche vantaggio nel sentimento dell’opinione pubblica in un frangente di acute difficoltà interne causate dalla pandemia di coronavirus e dalle sue conseguenze socio-economiche, portando anche a distogliere l’attenzione dai suoi problemi giudiziari e dalle tensioni esistenti nel governo. Pertanto, il premier è interessato a capitalizzare al massimo i vantaggi politici dell’annessione (vera o presunta che sia), puntando a cogliere l’occasione propizia per rimodellare il campo politico della destra israeliana, attribuendo parte della colpa per il fallimento del progetto di annessione alla stessa lobby dei coloni e della destra ultranazionalista israeliana. Da questo punto di vista, il paradosso dell’annessione è che per la prima volta dagli Accordi di Oslo (1993), in Israele non si discute sul fatto se l’annessione avverrà o meno, ma se Netanyahu abbia effettivamente la forza per portare avanti il progetto, o se questo sia l’ennesimo bluff politico del leader. Qualora dovesse verificarsi, il passo successivo riguarderà come tale mossa avverrà, riportando al centro del dibattito pubblico alcune versioni del piano Allon, ideato dal partito laburista negli anni Sessanta[8]. Altresì importante sarà anche capire quale sarà la percezione delle controparti arabe verso l’iniziativa, visto che il mancato procedimento del piano a luglio è stato rivendicato da Abu Dhabi come una vittoria significativa per la concessione della normalizzazione dei rapporti con Israele.

Indubbiamente, la posta in gioco è molto alta e Netanyahu, pur avendone compreso l’importanza politica, deve valutarne attentamente tutti gli effetti. Da parte israeliana, si stanno soppesando tutte le opzioni possibili, senza tralasciare la dimensione di sicurezza interna, che continuerà a essere predominante nelle scelte israeliane. In tal senso, potrebbero apparire come un paradosso le critiche diffuse delle principali agenzie di difesa e sicurezza israeliane, che hanno apertamente messo in guardia il governo dalle conseguenze negative di un’annessione, a cominciare da un possibile crollo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), non solo in termini di legittimità politica, che porterebbe a una rinnovata diffusione della violenza in Cisgiordania e a Gaza. Una simile impostazione, anche di fronte a una formale rinuncia dell’annessione de jure, costringerebbe Israele a dover percorrere un terreno accidentato e non sgombro di pericoli legati alle questioni del riconoscimento degli insediamenti e al controllo de facto della Cisgiordania. Questi nodi implicherebbero, oltretutto, la necessità da parte israeliana di dover affrontare il tema della cittadinanza dei palestinesi, ponendo eventualmente fine allo status di Israele come stato ebraico. Questa lettura aprirebbe una prospettiva tutta nuova su uno stato binazionale, non esente da rischi demografici e di convivenza; nel caso di non riconoscimento di alcuna cittadinanza ai palestinesi, si decreterebbe invece una forma di apartheid di stato, nella quale la leadership israeliana si impegnerebbe in senso non democratico nel non riconoscere alcuni diritti fondamentali alla parte non ebraica della sua popolazione.

La posizione palestinese – Di ben altro tenore sono le posizioni palestinesi. Le recenti iniziative condotte da Usa e Israele, infatti, rischiano di danneggiare le flebili speranze dell’Anp di poter guidare un qualche processo di pace, nonché di veder riconosciuto uno stato palestinese indipendente. Un contesto reso ancor più difficile dalla distanza geografica fra Cisgiordania e Gaza e dalla divisione ideologica e politica fra Fatah e Hamas. Da tempo, infatti, il sistema politico palestinese soffre di una perdurante debolezza politica dettata dalle lotte di potere all’interno dell’Anp e tra chi, come Hamas, non riconosce e contesta l’autorità di Fatah come organizzazione dominante di questo sistema. Una debolezza che si riversa inevitabilmente anche nel quadrante diplomatico relativo al Mepp, dove l’Anp non riesce a maturare una posizione efficace, se non appoggiandosi alle prerogative della potenza di turno. Si tratta di un’evidenza emersa ormai chiaramente soprattutto dagli anni Duemila, dopo la proposta saudita con il piano Abdallah del 2002. Se tutto questo ha rappresentato paradossalmente una forma di consenso e di sicurezza per l’Anp, il mutamento di contesto internazionale e regionale, il calo di consenso intra-palestinese e arabo nei confronti della guida politica del movimento e, più in generale, un diffuso interesse delle potenze mediorientali a confrontarsi anche politicamente con Israele, hanno costituito un momento cruciale di riconsiderazioni, soprattutto in chiave di leadership palestinese[9].

Proprio quest’ultima, così come la sua opinione pubblica, ha criticato pesantemente le iniziative sorte in questi mesi, bollandole come un tradimento alla causa palestinese. Ma alla condanna ufficiale non è seguita una qualche iniziativa volta a cambiare la statica postura politica. Anzi l’accordo israelo-emiratino ha impresso un forte impulso anche in molte relazioni intra-palestinesi, come per esempio l’avvicinamento di Hamas, insieme al Jihad islamico palestinese, a Hezbollah come forma di pressione politica in funzione anti-israeliana, fomentando ulteriori malumori soprattutto nel quartier generale di Ramallah. Il presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), ha minacciato di revocare tutti gli accordi con Israele e gli Stati Uniti nel caso in cui vi fossero stati sviluppi ai danni dei palestinesi. Ciononostante, la leadership palestinese ha mostrato una consueta incapacità e assenza di unità nell’affrontare le questioni in oggetto, mostrandosi, in verità, come uno spettatore pagante e non come un attore direttamente interessato a stravolgere la scena. Pertanto, essa si è mostrata come un interprete incapace di incidere sugli eventi e più interessata a oliare rodati meccanismi familistici. Anche la rischiosa scommessa di Ramallah, secondo cui nessun paese arabo avrebbe portato avanti un’azione contro i palestinesi, si è tramutata in un’ennesima sconfitta politica dopo le iniziative di Eau e Bahrain, confermando non solo che i paesi arabi sono disposti a instaurare rapporti formali con Israele, ma anche che questi eventi non hanno portato alcun progresso nel processo di pace mediorientale. Chiaramente l’intesa israelo-emiratina e quella israelo-bahrainita, così come le precedenti iniziative ricadenti nell’ambito del Mepp, hanno definito maggiormente questo stato di percezione di “tradimento”. In altre parole, questi accordi riconoscono e determinano in maniera inequivocabile una normalizzazione dell’occupazione militare israeliana in Cisgiordania[10].

 

Un contesto regionale multidimensionale

Sebbene il tema sia molto sentito almeno in termini di opinione pubblica, il dossier israelo-palestinese risente inevitabilmente del logorio del tempo e della stanchezza/incapacità politica delle cancellerie mediorientali nel saper affrontare la questione, risultando per certi versi un onere fin troppo gravoso da sostenere. Nonostante i retorici moniti della Lega araba e dei principali attori coinvolti, interessati a mantenere una narrazione ufficiale il più possibile di grande vicinanza ideologica e simbolica alle sofferenze dei palestinesi, tutto ciò si tramuta spesso in distanza politica o denuncia mutilata e celata da altri interessi in gioco. Anche in virtù di ciò, il Mepp si è sempre dimostrato totalmente funzionale alle ambizioni e alle aspirazioni della potenza regionale di turno: se in passato l’Egitto dei presidenti Nasser e Sadat mostravano grande interesse nei confronti del tema per giustificare le proprie iniziative politiche sul piano interno ed estero, oggi tale dinamica sembra essere a totale appannaggio delle visioni saudite ed emiratine. In questo senso, il Mepp risulta essere una sorta di “merce di scambio” per definire altri dibattiti e aspetti delle agende di politica estera delle potenze regionali.

In sostanza, il processo di pace mediorientale funge ancora una volta da strumento politico più che da obiettivo finale per garantire e tutelare aspirazioni di terzi ai danni delle legittime ambizioni palestinesi. Un elemento, questo, apparso chiaramente negli accordi del 13 agosto. Se per Israele vi era in gioco una partita diplomatica di più ampie prospettive che vedeva coinvolta direttamente la seconda economia araba e un attore arabo importante per puntellare le strategie mediorientali di Tel Aviv, per gli Eau l’intesa era necessaria a garantirsi un accesso privilegiato ad alcuni asset (sicurezza, tecnologie, sicurezza e telecomunicazioni) in cui Israele è l’autentica potenza regionale. In entrambi i casi, l’uso funzionale del nodo palestinese è stato necessario al rispettivo fine: per gli Eau, l’intesa doveva mostrare l’immagine di un paese forte in grado di non soccombere dinanzi al nemico storico israeliano, esibendosi al contempo come un attore risoluto e in grado di costruire una narrazione (domestica e regionale) positiva dell’accordo, anche in favore delle presunte aspirazioni palestinesi; per Israele, l’accordo ha rappresentato un successo diplomatico, rivendibile anche in chiave di consenso interno, raccolto nei confronti di un attore rilevante nelle dinamiche fluide della regione. Un’intesa che in un certo senso si pone in continuità con tutte le altre esperienze del passato, nelle quali sono gli attori regionali e internazionali a far pesare gli interessi di parte, decidendo anche le sorti dei palestinesi, sempre più frazionati al loro interno[11].

Allo stesso tempo, le evoluzioni recenti in merito al Mepp potrebbero avere ripercussioni dirette soprattutto negli equilibri regionali con gli storici partner arabi di Washington, ossia Egitto e Giordania, fortemente contrari alla proposta unilaterale trumpiana. Proprio il piano Usa è pieno di riferimenti al ruolo di Amman nella questione israelo-palestinese, essendo il regno hashemita il custode dei luoghi sacri dell’Islam a Gerusalemme, ma dei quali rischia di perdere in buona sostanza il controllo. Amman ha accolto freddamente la proposta americana vedendo in questa più insidie che opportunità: in primis alla sua sicurezza territoriale visto il riconoscimento del fiume Giordano quale frontiera orientale israeliana; in secondo luogo, ma in modo più sottile, per quel che riguarda la questione dei palestinesi dentro e fuori le barriere fisiche del regno[12]. Un discorso analogo vale anche per l’Egitto: pur avendo salvato la propria integrità territoriale – nelle indiscrezioni dei media dei mesi scorsi si accennava addirittura a una cessione di parti del nord del Sinai alla futura statualità palestinese, come sorta di risarcimento territoriale – non è chiaro quali vantaggi reali guadagnerebbe Il Cairo dal sostenere questo appeasement troppo sbilanciato, nel quale il disagio popolare verso la questione palestinese rimane molto forte e viscerale[13]. Infine, ma non per questo meno importante, bisogna ricordare quanto la questione palestinese abbia pesato sulla storia del Libano. In tal senso basterebbe ricordare che Israele non ha mai firmato un accordo di pace con il paese dei cedri e mantiene rapporti politici e di sicurezza molto tesi lungo quella porzione di frontiera settentrionale, anche dopo la proroga di un anno della missione Unifil. 

In questo senso si può sostenere che l’intesa israelo-emiratina, così come quella con il Bahrain, non intenda colpire principalmente l’Iran e i suoi proxies regionali (Hezbollah in primis) – seppur indebolita dagli effetti della pandemia Teheran rimane la minaccia numero 1 per Israele e i suoi partner del Golfo –, ma quelle forze dell’Islam politico[14] e quegli stati che negli anni post-Primavere arabe hanno accolto queste istanze guidate da Qatar e Turchia, i quali si sono mossi in forte contrapposizione alla diarchia saudito-emiratina. Sebbene Doha e Ankara siano alleati di Washington e intrattengano rapporti altalenanti con Tel Aviv, le rispettive posizioni e interessi geopolitici rischiano di cadere in conflitto con Israele e gli Usa. Anche per questo è molto importante per Washington e Tel Aviv creare un nuovo scenario favorevole di allineamenti regionali, nei quali i paesi arabi più importanti (Arabia Saudita ed Eau, in prima fila, mentre l’Egitto rimarrebbe in una posizione più defilata) supportino le iniziative israeliane spaccando ulteriormente il fronte non allineato (come nel caso della delicata posizione giordana, contraria al piano Trump e non espressamente all’accordo tra Abu Dhabi e Tel Aviv), ma anche sostenendo le insolite sinergie israelo-emiratine nel Mediterraneo, in Libano, nella Striscia di Gaza e nel Mar Rosso. In quest’ottica, Israele punta dunque sempre più a legarsi agli Eau anche per contenere le influenze turco-qatariote e iraniane nella Striscia di Gaza, dove negli anni Ankara, Doha e Teheran hanno stretto forti legami con Hamas. Di fatto, Israele intravede negli Emirati la possibilità di penetrare Hamas in maniera strumentale al suo interesse di sicurezza, dividendo ulteriormente il campo palestinese e permettendo ad Abu Dhabi di giocare un ruolo importante nel bacino mediterraneo-vicino-orientale, senza pregiudicare le sue ambizioni regionali[15].

 

La partita internazionale: il ruolo degli Usa

In questa prospettiva, il piano Trump, la proposta di annessione unilaterale israeliana e le intese del 13 agosto e dell’11 settembre non sono frutto dell’estemporaneità, ma della necessità di ridefinizione degli obiettivi e delle strategie Usa nella regione all’indomani dell’accordo sul nucleare iraniano del 2015. Una tendenza emersa in tutta la sua evidenza soprattutto dopo l’insediamento di una nuova amministrazione, ossia quella guidata dal 45° presidente degli Stati Uniti Donald Trump, di orientamento totalmente opposto a quella democratica di Barack Obama. Infatti, fin dal suo insediamento (20 gennaio 2017), la nuova presidenza Trump ha cercato di ridefinire i contorni della politica mediorientale del suo predecessore per rafforzare le “relazioni speciali” di Washington con i partner storici di Arabia Saudita e Israele. Non a caso il primo viaggio estero del presidente fu, nel maggio 2017, il lungo tour mediorientale che lo ha portato dapprima a Riyadh e poi a Tel Aviv. Pertanto la rivisitazione proposta dagli Usa del Mepp accoglie in pieno le evidenze indirette del progetto mediorientale della Casa Bianca e si basa su tre fronti: 1) spaccare il fronte arabo; 2) favorire un’interdipendenza tra i paesi vicini a Washington e Tel Aviv, anche attraverso una serie di accordi di sicurezza ed economici; 3) creare un contesto regionale nuovo con il “fronte arabo pragmatico”, primo scudo militare contro i nemici degli Stati Uniti e di Israele (è evidente qui il richiamo alla Middle East Strategic Alliance, meglio nota come “Nato araba”)[16]. Una necessità strategica, quella statunitense, che non si richiama al solo Medio Oriente, ma allarga la prospettiva all’Africa orientale e al quadrante indo-pacifico, in un’operazione tesa a contrastare tutti i nemici degli Usa e di Israele. Di fatto, questa duplice prospettiva strategica si inserisce in uno scenario geopolitico fluido volto a proteggere ed espandere gli interessi (politici, economici e di sicurezza) israeliani e americani che collegano i paesi africano-asiatici tra Mar Rosso e Oceano Indiano occidentale, creando così un potenziale blocco unico di stati (compresi quelli del Golfo e l’India), con i quali condividere visioni (per lo più di sicurezza) e minacce comuni (Iran, Russia e Cina)[17].

Altresì, vi è da considerare un ulteriore fattore politico riguardante per lo più la dimensione domestica americana. A novembre negli Stati Uniti si terranno le elezioni presidenziali che, al momento, vedrebbero Trump di circa cinque punti percentuali in ritardo sul suo sfidante, il democratico Joseph Biden. In questo contesto, la strategia mediorientale di Trump punta a creare consenso politico interno in chiave elettorale[18], sebbene sia noto che gli argomenti di politica estera abbiano tradizionalmente poco peso nelle scelte dell’elettorato al momento di recarsi al seggio per votare. Ciononostante, Trump punta a usare queste iniziative, compresa la controversa intesa tra Serbia e Kosovo[19], per rilanciare l’immagine sia domestica sia internazionale del presidente, offuscata dalla gestione del coronavirus negli Stati Uniti. Al di là di qualsiasi risultato presenterà il voto del 3 novembre, appare alquanto improbabile che, anche qualora Biden fosse eletto nuovo presidente, gli Stati Uniti possano invertire le scelte finora intraprese, tornando a prediligere la precedente via negoziale[20]. 

 

Prospettive per un'azione europea (e italiana)

In questa prospettiva risulta davvero difficile scorgere un ruolo e un’iniziativa concreta per la comunità europea nel suo complesso, che pur con diversi distinguo continua a non accettare tout-court l’unilateralismo israelo-statunitense in funzione anti-palestinese, intravedendo in ciò un’azione di forza contraria al diritto internazionale. A frenare le possibili iniziative unilaterali di Tel Aviv è stata la forte presa di posizione europea, a guida franco-tedesca, che ha messo in guardia l’alleato israeliano dall’intraprendere un’azione che avrebbe comportato ripercussioni dirette a livello di relazioni politiche ed economiche. Ciononostante, l’attivismo europeo è rimasto bloccato, forse prigioniero di una perdurante debolezza politica che gli impedisce di agire unitariamente in politica estera e di sicurezza in un quadrante geopolitico come il Mediterraneo-Medio Oriente, cruciale per l’Unione europea. Ancora una volta, dunque, lascia perplessi l’indecisione europea che non ha preso una posizione chiara sul merito dei fatti. Bruxelles ha chiarito, per voce del suo Alto rappresentante Josep Borrell, che lavorerà con israeliani e palestinesi per un negoziato che porti a un accordo di pace entro i parametri della legalità internazionale – e presumibilmente accettando l’idea dei due stati –, senza però spiegare se valuterà e accetterà il disegno strategico valutato dagli Usa come base di partenza delle trattative o rigetterà tutto per presentare una iniziativa europea[21].

Ad alimentare la confusione si aggiungono le posizioni differenti dei singoli stati, tra le quali vi è anche quella italiana. Pur marcando un cordone storico verso la questione israelo-palestinese, l’Italia da tempo oscilla tra la volontà di mostrarsi super partes, mantenendo buoni rapporti con israeliani e palestinesi, e l’esigenza di tutelare alcuni interessi strategici specifici (energia, sicurezza, cyber, tecnologia), che da oltre un decennio legano in maniera considerevole Roma e Tel Aviv. Una posizione dissonante figlia anche delle differenze di visione politica esistenti sia all’interno della maggioranza, sia nelle opposizioni, con diversi partiti tradizionalmente più pro-Israele e altri che scontano un sostegno più culturale che politico alla causa palestinese. In questa prospettiva, la posizione italiana (così come quella europea nel suo complesso) rimarca una visione legata e dipendente dalle strategie degli Stati Uniti su diversi scenari nell’area del Medio Oriente e Nord Africa (Mena): dalla Libia all’Iraq, passando per le scoperte energetiche nel Mediterraneo orientale[22].

 

Conclusioni

Il percorso sin qui enucleato ci mostra chiaramente come il Mepp sia giunto a un momento di svolta che crea sia rischi sia opportunità in Medio Oriente. Se gli accadimenti in corso hanno come obiettivo l’avvio di un processo complessivo di trasformazioni politiche nell’intera regione, coinvolgendo direttamente anche Iran e Turchia in un contesto sì competitivo ma meno polarizzato, questo porterà quasi definitivamente a un accantonamento della questione israelo-palestinese in virtù della stabilità del sistema mediorientale. Di converso, se le iniziative finora descritte mirano a un rilancio dei negoziati israelo-palestinesi, risulta difficile capire come queste potranno avvenire considerando la perdita di autorevolezza e lo screditamento subito dalla parte negoziale palestinese dinanzi a un ambiente sempre più coinvolto e positivo nei confronti di Israele. Al di là di qualsiasi ipotesi, vi è una certezza: la soluzione a due stati risulta sempre meno applicabile. Tuttavia, solo dopo il 3 novembre 2020 scopriremo verso quale direzione si starà incamminando quel che rimane del Mepp.

 

[1] Per maggiori dettagli sul piano: “Peace to Prosperity: A Vision to Improve the Lives of the Palestinian and Israeli People”, The White House, 28 gennaio 2020.

[2] Si tratta di dieci cittadine e villaggi (Kafr Qara, Arara, Baha al Gharbiyye, Umm al Fahem, Qalanswa, Taibe, Kafr Qasim, Tira, Kafr Bara e Jaljulia) in territorio d’Israele, vicini alla linea armistiziale con la Cisgiordania e abitata da una forte maggioranza di circa 260.000 arabo-israeliani. L’iniziativa non è volta a creare una ridistribuzione di terre ma è mirata a favorire una sorta di “supremazia ebraica” in un’area storicamente a maggioranza palestinese all’interno del territorio israeliano.

[3] Con Amman permangono forti tensioni non limitate solo alla questione della Valle del Giordano strictu sensu, ma anche alle possibilità che un’annessione di questa fascia territoriale da parte di Israele porti a una modifica unilaterale dei confini così come stabiliti dal trattato di pace tra i due paesi (1994). Altresì importanti sarebbero i riflessi relativi all’annosa questione dei palestinesi e dell’amministrazione dello status – per ora condiviso – dell’area della Spianata delle moschee, che potrebbe invece passare alla sola gestione israeliana.

[4] “Remarks by President Trump Announcing the Normalization of Relations Between Israel and the United Arab Emirates”, White House, 13 agosto 2020.

[5] “UAE said to scrap meet with Israel, US envoys after Netanyahu panned F-35 deal”, The Times of Israel, 24 agosto 2020.

[6] “Remarks by President Trump on the Announcement of Normalization of Relations Between Israel and the Kingdom of Bahrain”, White House, 11 settembre 2020.

[7] Il riferimento è alle critiche mosse dall’ambasciatore emiratino a Washington, Youssef al-Otaiba, sull’eventualità che Israele portasse avanti un procedimento di annessione unilaterale della Cisgiordania senza tener conto dei rischi al contesto regionale. Per maggiori informazioni, si veda: “Emirati ambassador: West Bank annexation will make region ‘unstable’”, Al Monitor, 3 giugno 2020.

[8] G. Dentice e A.M. Bagaini, “Netanyahu’s Plans and Israel’s Internal Debate about Annexation”, in G. Dentice e A. M. Bagaini (a cura di), Israel’s Annexation Plan: A Middle Eastern Perspective, Dossier, Italian Institute for International Political Studies (ISPI), 1 luglio 2020.

[9] Y. Munayyer, “The Collapsing Arab Consensus and Options for the Palestinian Leadership”, Arab Center Washington, 28 agosto 2020.

[10] K. Elgindy, “Normalizing Israeli occupation”, in P. Salem et al., Special briefing: Regional reactions to the Israel-UAE deal, Middle East Institute, 17 agosto 2020.

[11] C. Bianco e H. Lovatt, Israel-UAE peace deal: Flipping the regional order of the Middle East, European Council on Foreign Relations (ECFR), 14 agosto 2020.

[12] J. Al-Anani, “Six Reasons Why Jordan Rejects Netanyahu’s Plan”, in G. Dentice e A.M. Bagaini (a cura di), Israel’s Annexation Plan: A Middle Eastern Perspective, Dossier, Italian Institute for International Political Studies (ISPI), 1 luglio 2020.

[13] M.F. Mabrouk, “Official approval, but popular unease in Egypt”, in P. Salem et al.,Special briefing: Regional reactions to the Israel-UAE deal, Middle East Institute, 17 agosto 2020.

[14] Proprio l’Accordo Abraham sembra consolidare questa percezione rafforzando quell’asse trasversale di paesi mediorientali (come appunto Israele, Arabia Saudita, Eau ed Egitto) contrari a tutti quei movimenti (anche islamici) che promuovevano un processo di democratizzazione sia nel 2011 (basti pensare alla Tunisia), sia nella nuova ondata del 2018 minando la stabilità di realtà come Libano, Iraq, Algeria e Sudan. In tal senso, la Tunisia può assurgere a emblema di quest’asse contro-rivoluzionario. Qui le forze islamiche come Ennahda hanno trovato un difficile equilibrio con i partiti laici e insieme stanno promuovendo una vera transizione democratica nel paese. Tuttavia, Eau e Arabia Saudita stanno esercitando forti pressioni contro il governo di Tunisi intravedendo in tali processi una longa manus turco-qatarina. Il rischio, pertanto, è che la Tunisia diventi l’ennesima tappa della rivalità nordafricana tra potenze del Golfo. Per maggiori approfondimenti, si vedano: A. Walsh, “What Has Changed in Policing since the Arab Uprisings of 2011? Challenges to Reform and Next Steps”, Arab Reform Initiative (ARI), 7 settembre 2020; C. Lons, “Ports and Politics: UAE-Qatar Competition in the Mediterranean” in G. Dentice e V. Talbot (a cura di), A Geopolitical Sea: The New Scramble for the Mediterranean, Dossier, Italian Institute for International Political Studies (ISPI), 17 luglio 2020.

[15] D. Halbfinger e R. Bergman, “Shifting Dynamics of the Mideast Pushed Israel and U.A.E. Together”, The New York Times, 15 agosto 2020.

[16] Per maggiori dettagli sull’argomento, si veda: G. Dentice, “Approfondimento: Rischi e opportunità per una nuova “alleanza" militare araba”., in V. Talbot (a cura di), Focus Mediterraneo allargato n. 9, ISPI per l’Osservatorio di Politica Internazionale del Parlamento Italiano e del MAECI, marzo 2019.

[17] M. Del Pero, La strategia USA in Medio Oriente, tra geopolitica e calcoli elettorali, Commentary, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), 1 settembre 2020.

[18] K. Dozier, “Will Trump’s Landmark Middle East Deal Deliver Election Boost From Jewish and Evangelical Voters?”, Time, 15 agosto 2020.

[19] Per maggiori dettagli sull’intesa tra Serbia e Kosovo, si invita a leggere il seguente articolo: G. Fruscione, Trump e i Balcani: il non-accordo tra Kosovo e Serbia, Commentary, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), 7 settembre 2020.

[20] Il riferimento è all’affermazione di Biden di voler mantenere la sede dell’ambasciata Usa a Gerusalemme anche qualora diventasse presidente. Per approfondire si veda: T. Wikinson, “Biden won’t return U.S. Embassy to Tel Aviv, but can he undo other Trump moves in Mideast conflict?”, Los Angeles Times, 1 settembre 2020.

[21] R. Emmott, L. Barker, J. Irish, e M. Lubell, “Vexed by annexation: The battle inside the EU over Israel”, Reuters, 23 giugno 2020.

[22] E. Rossi, “Cosa si muove tra Medio Oriente e Mediterraneo. Lo spiega Giampiero Massolo”, Formiche.net, 13 settembre 2020.

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AUTORI

Giuseppe Dentice
Università Cattolica del Sacro Cuore e ISPI

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