Per la prima volta in 50 anni la pace in Colombia risiede nelle mani del suo popolo, che domenica 2 ottobre voterà un referendum per approvare gli accordi raggiunti tra il governo di Bogotà e le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc).
L’intesa firmata tra il presidente colombiano Manuel Santos e il comandante guerrigliero Rodrigo Londoño (alias Timochenko) ha una speciale importanza per questo paese devastato da una guerra che ha causato oltre 200.000 vittime. Si è raggiunto questo obiettivo grazie alla volontà delle parti in conflitto e in virtù della mediazione di due paesi come Cuba e Norvegia, che hanno ospitato i primi incontri a Oslo e L’Avana nel 2012.
Punto fondamentale dell’accordo riguarda sia i guerriglieri sia i militari attualmente in carcere e condannati dalla giustizia ordinaria, che potranno aspirare ad avere la libertà pagando pene più moderate attraverso la loro audizione presso il Tribunale speciale per la pace (Tep), l’unico autorizzato a concederle. Questo vuol dire che il perdono è un percorso individuale ma la riconciliazione è una scelta collettiva.
Indispensabile altrettanto è stato l’atteggiamento di Cuba e del Venezuela, che erano i referenti politici e ideologici della guerriglia per un armistizio definitivo; gli stessi Stati Uniti erano anche loro a favore del porre termine alle ostilità; decisivo in tal senso è stato anche il disgelo intervenuto tra Washington e L’Avana.
Con la “pudica” parola di Alto el Fuego tra lo Stato colombiano e i guerriglieri della Farc, avvenuto nel giugno di quest’anno, si è reso possibile un sogno di pace durato decenni. Malgrado ciò dobbiamo chiederci se stiamo davanti al principio della fine o solo alla fine del principio.
Con questa firma dovrebbe risultare strozzata ogni tipo di insurrezione anche nei confronti dell’altro gruppo guerrigliero Eln (Esercito di liberazione nazionale) e del banditismo dei gruppi paramilitari. Oggi la pace continua ad essere un obiettivo distante però raggiungibile.
Stando così le cose, la firma di cessate il fuoco pone fine a 63 anni di lotta armata in America Latina e, pertanto, tale atto dovrebbe rappresentare il principio della fine. Proprio l’isola caraibica, rappresenta “principio” e “fine” di due eventi centrali nella storia del continente: l’assalto alla caserma Moncada, il 26 luglio 1953, che pur fallendo diede avvio alla rivoluzione cubana, e la firma degli accordi tra il governo della Colombia e le Farc avvenuto il 23 giugno del 2016. Queste ultime sono la guerriglia più antica e in alcuni momenti furono l’insurrezione più numerosa della storia continentale dopo la rivoluzione messicana. Rimangono gruppi di minore importanza in Paraguay, Messico, Perù e nella medesima Colombia. Se questi spezzoni non entreranno al più presto nell’agone politico, inevitabilmente verranno risucchiati dal crimine organizzato. Nelle attuali condizioni l’insorgenza armata ha terminato di essere un modello di lotta per trasformarsi in una forma di vita.
È storia ricordare che Cuba armò e addestrò militarmente migliaia di latino-americani in molti paesi. Andavo a Cuba quando eravamo in pochi ad andarci e avendo avuto la possibilità di colloquiare con il comandante della rivoluzione cubana Manuel ‘‘Barba Roja’’ Piñeiro Losada, luogotenente di Ernesto ‘‘Che’’ Guevara, acquisii qualche conferma che da Cuba, vennero coordinate, a partire dagli anni Sessanta, la logistica per le guerriglie guevariane dal Congo alla Bolivia.
Il recente annuncio dell’Avana, quindi, rappresenta la conclusione di un lungo confronto che insanguinò non solo la Colombia, ma gran parte della regione, aiutando anche a trasformare l’America Latina. In questo percorso vorrei ricordare, tra i tanti, due significativi personaggi che ho entrambi frequentato: Huber Matos e Teodoro Petkoff.
Il primo rappresentativo del mondo cattolico che con i suoi 300 contadini fu determinante nell’aiutare Fidel Castro “incastrato sulla Sierra Maestra”. Successivamente si ribellò alle alleanze con l’Unione Sovietica e alla trasformazione del partito denominato “Movimento 26 luglio”, data dell’assalto alla caserma Moncada, in ricordo all’assalto della caserma Moncada, per entrare nell’allora minoritario Partito comunista cubano. L’importante accordo colombiano ha un significativo precedente in Teodoro Petkoff, leader marxista della guerriglia venezuelana che negli anni Sessanta decise di incorporarsi nel percorso parlamentare fondando un partito Mas (Movimento al Socialismo), punto importante poiché anche le Farc sono di fronte a questa sfida politico parlamentare che è prevista nell’accordo. Petkoff che è un intellettuale ha compiuto una profonda autocritica sulla sinistra latino-americana e pur essendo stato decisivo per la messa in libertà di Hugo Chàvez dopo il suo primo tentativo di colpo di stato, oggi è perseguitato dal chavismo per le sue posizioni libertarie. Tutto questo per dimostrare, quantomeno sul piano dell’assonanza, che non solo la democrazia, ma anche le rivoluzioni non si possono né esportare né inventare.
In Colombia ha operato una dimensione di violenza politica denominata “Conflictos de Baja intensidad”, con un duplice interno: da un lato ribaltare le istituzioni, dall’altro favorire il commercio illecito della droga, il narco-terrorismo, i processi etnici regionali, religiosi e nazionalisti, che si sono slegati tra di loro dopo la caduta del Muro di Berlino. La guerriglia colombiana non ha avuto tanto un appoggio esterno e ha evitato un allineamento che aveva come fondale dello scontro est-ovest. Tutto nacque da uno conflitto interno al paese e più precisamente tra i due partiti dominanti e oligarchici, liberali e conservatori quando, tra il 1946 e il 1948, Jorge Gaitán ad un passo del potere venne assassinato provocando un periodo di violente proteste conosciute come Bogotazo, primo atto che ha originato la violenza fino ai giorni nostri.
Il progetto più recente, di analogo tentativo, fu avviato dal governo di Andrès Pastrana, nell’anno 2000, che in una zona smilitarizzata della Colombia incontrò il leader Manuel Marulanda soprannominato Tirofijo (tiro preciso), ma non si raggiunse alcuna intesa. Il presidente statunitense Bill Clinton lanciò il Plan Colombia, che alla fine servì al governo per modernizzare il suo esercito e alla guerriglia per riarmare le proprie milizie.
Un esperto di questi drammi, il salvadoregno Joaquìn Villalobos, mette in guardia dai rischi della polarizzazione. Anche il suo paese raggiunse la pace, ma successivamente venne frantumata e oggi soffre una violenza peggiore della guerra civile. Il martirio di monsignor Oscar Romero ne è una significativa testimonianza. La politica è lotta e accordo, senza lotta non c’è identità, però senza accordi non hai un governo e senza un governo non hai la pace.
Perché dunque soltanto ora il presidente Santos ha potuto negoziare con la guerriglia? Oggi la Colombia ha un budget ben maggiore rispetto al passato per affrontare i temi dell’agenda negoziale, ovvero la restituzione, distribuzione di certificati di proprietà delle terre, il problema degli sfollati, la riforma della giustizia e l’abbandono del narcotraffico da parte delle Farc. Lo stato colombiano targato 2016 risulta diverso anche agli occhi della guerriglia perché economicamente è molto più florido rispetto al passato e in grado di essere membro di un percorso globale come l’alleanza per il Pacifico con altri paesi: Messico, Perù, Cile e le tigri delle economie asiatiche. Se il budget per la pacificazione nella zona smilitarizzata di Caguan, dove avvenne il primo incontro ufficiale tra le istituzioni e la guerriglia, aveva messo sul tavolo 25 miliardi di dollari, oggi è stata in grado di piazzarne circa 120.
Tra le tante analisi, dibattiti e scritti che si sono succeduti in questi mesi è emerso l’articolo che Héctor Abad Faciolince ha scritto per il quotidiano madrileno El Pais, dal titolo “Non mi sento una vittima”. In questo pezzo vengono spiegate le ragioni del suo voto favorevole all’accordo di pace, mettendo sotto lenti di ingrandimento in maniera chiara quello che sembrava sfocato. Faciolince ha una tragica storia familiare, suo padre fu assassinato dai paramilitari e il marito di sua sorella sequestrato più volte dalle Farc. Si sarebbe potuto immaginare che in questa situazione avrebbe votato “no” al plebiscito. Tutto questo dramma è stato scritto in un libro memorabile: “L’oblio che saremo”. Questo libro è la ricostruzione amorosa e paziente di un personaggio. É piena di sorrisi, amarezza, canta i piaceri del vivere ma mostra anche la profonda smorfia di tristezza e di rabbia che provoca il vile assassinio di questo gradevole personaggio che non è altro che il padre del narratore.
Qualche giorno fa, sempre sul quotidiano spagnolo El Pais, il premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa è ritornato a commentare quelle riflessioni. Lo scrittore peruviano è uomo di grande spessore culturale, ma certo non collocabile in contesti progressisti e di sinistra; ma i suoi “elzeviri” vengono pubblicati in contemporanea sui più importanti quotidiani del mondo. Vargas Llosa confessa che non aveva chiara la situazione e in qualche modo contento di non essere coinvolto in questo plebiscito. Ma la scrittura di un uomo sensato e onesto come Faciolince lo ha convinto che se fosse colombiano anche lui avrebbe votato “sì”. Héctor Faciolince è oggi catalogato tra i possibili nuovi canoni della letteratura latino-americana; conosce l’Italia per avere studiato a Torino e ha tradotto autori italiani come Umberto Eco e Italo Calvino.
Circa due anni fa ho colloquiato con lui per un’intera mattinata nella sua città natale di Medellìn. Testimonio che Medellìn, oggi, è un piccolo miracolo. Di Pablo Escobar Gaviria e del suo sinistro “cartello della droga” rimane solo il drammatico quadro di Botero nel museo. La città fantasiosamente illuminata lungo il suo fiume con un longilineo bosco di luci e colori. Le strade e i viali pieni di gente, bar affollati e una musica con dentro la forza contagiosa della giovane cantante Shakira.
Gilberto Bonalumi, ISPI Scientific Advisor