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Commentary

Dalla "soluzione" in Siria inizia la nuova instabilità mediorientale

12 febbraio 2016

Forse si intravede la fine. O meglio: l’inizio della fine del conflitto siriano. L’accerchiamento di Aleppo e l’interruzione delle vie di approvvigionamento dell’opposizione verso il confine turco si stanno realizzando. I ribelli, moderati, meno moderati o jihadisti che siano, sono in trappola da Aleppo a Idlib, Homs e Hama. Più silenziosamente, ma altrettanto inesorabilmente, le truppe di Assad avanzano nel sud con l’intenzione di riprendere la città di Daraa e i valichi di confine con la Giordania. Non subito, certo. Gli assedi di Aleppo, Idlib e altre città dureranno forse interi mesi. Ancora decine di migliaia di morti cadranno uccisi dalle bombe o dalla fame, e altre migliaia di profughi fuggiranno, a cominciare dagli oltre 70 mila che nei giorni passati sono scappati da Aleppo verso il confine turco per mettersi al riparo dai bombardamenti russi. Ma a meno di colpi di testa militari da parte di Turchia e Arabia Saudita – gli Stati Uniti, no, non ne hanno nessuna intenzione – i giochi sembrano fatti: scacco matto. 

La fine si intravede, quindi, perlomeno della guerra civile siriana così come l’abbiamo conosciuta fino a oggi, anche alla luce dell'intesa raggiunta nella notte a Monaco. Una fine che sarà l’inizio di molti altri processi, altri nodi lasciati ad attorcigliarsi in questi cinque lunghi anni in attesa di dirimere ‘il nodo’ per eccellenza, ovvero l’annientamento del nemico. Ma cinque anni sono lunghi, e i nodi sono diventati enormi: 6 milioni di profughi, 70% di infrastrutture distrutte, una politica regionale nel caos. Di seguito ne riporto tre, tra i molti che una tragedia umanitaria e sociale come il conflitto civile siriano ha saputo creare. 

  • •“Cade lo stato, ma non il regime”. Con questa frase lo scrittore palestinese Elias Khoury nei giorni scorsi ha sintetizzato perfettamente sulle colonne di Al-Quds Al-Arabiyy la situazione del tessuto istituzionale e sociale della Siria dopo la probabile vittoria di Assad.  Perché chi pensa che la vittoria del regime significhi semplicemente un ritorno allo status-quo-ante potrebbe rimanere molto deluso. Sei milioni di siriani (su un totale di 22) sono all’estero. Un cittadino su due rimasto in Siria non vive più dove viveva prima del conflitto. La cartina sociale del paese è completamente cambiata. Le zone “miste”, da secoli orgogliose testimonianze di quella Siria multietnica e multi confessionale non esistono quasi più. Sunniti da una parte, alawiti e gran parte dei cristiani dall’altra, drusi e altre minoranze asserragliati nelle loro valli. Soprattutto le zone a maggioranza sunnita sono state rase al suolo da cinque anni di bombardamenti dell’aviazione del regime e, ultimamente, da quella russa. Case, scuole, ospedali e infrastrutture sono scomparsi o gravemente danneggiati. Dei sei milioni di siriani fuggiti all’estero molti sono coloro che probabilmente in una Siria governata da Assad non torneranno. Se non per ostilità, anche solo per paura di non ritrovare nulla a cui tornare. E come alla fine di ogni guerra civile i regolamenti di conti personali e “istituzionali” continueranno per anni. Sono continuati per un decennio dopo la rivolta dell’82. Per quanto dureranno stavolta? 
  • Ma è il regime stesso a non essere più lo stesso, nonostante le apparenze. Certo, Bashar al-Assad probabilmente rimarrà al suo posto. Ma quello che era una volta un sistema piuttosto compatto è oggi un insieme di agenzie di sicurezza trasformatesi in centri autonomi di potere e un esercito ridotto a poche brigate fedeli affiancate da una pluralità di milizie paramilitari, ognuna controllata da personalità esterne, spesso leader locali, con i quali il regime dovrà negoziare di volta in volta il controllo del territorio. “Il problema più grande sarà dopo la fine della guerra” ha confessato alla rivista Al Monitor un ufficiale del regime rimasto anonimo. E non ha tutti i torti. Quando la polvere della guerra si sarà posata sul territorio siriano saranno rimasti, oltre a ufficiali e piloti russi, anche migliaia di foreign fighters mobilitati dall’Iran per combattere il jihad sciita in Siria al fianco di Assad. Molti se ne andranno ma, come i russi e i loro caccia tattici nelle basi di Tartus e Latakia, molti resteranno. Per il regime, tra signori della guerra interni e sponsor esteri da ripagare e accontentare, sta forse per iniziare una guerra per il potere ancora peggiore. 
  • •Le radici sociali del problema. Malgrado le narrazioni complottiste di una certa stampa populista, la rivolta siriana è esistita. E come tutte le rivolte, qualunque direzione ‘simbolica’ prendano, è partita da un malessere sociale diffuso, soprattutto nella provincia e nelle campagne lontane dai grandi centri di Damasco, Aleppo e della costa. Una massa di siriani, per lo più sunniti, esclusi dalla macchina dello sviluppo economico e del potere, che hanno cercato di conquistarsi un posto migliore all’interno della struttura socioeconomica del paese, prima attraverso una rivolta pacifica repressa nel sangue e poi con l’uso delle armi. Una cosa molto simile a ciò che accadde durante la rivolta sunnita del 2006-2008 in Iraq. Allora i sunniti iracheni spodestati ed esclusi dal potere dall’invasione americana si rivoltarono aderendo in massa all’Isi, lo Stato Islamico in Iraq (embrione del futuro Isis). In quell’occasione gli americani capirono che nonostante le minacciose apparenze jihadiste il problema era politico e sociale, e negoziarono con i leader sunniti una divisione del potere a Baghdad che li salvaguardasse dallo strapotere sciita. E, magicamente, da un giorno all’altro i sunniti iracheni dimenticarono bandiere nere, califfi ed emiri mettendo fine alla rivolta. 
  • Ma gli americani se ne sono andati, e non hanno nessuna intenzione di tornare. A Baghdad gli alleati dell’Iran a cominciare da al-Maliki hanno da tempo messo fine alla politica bilanciata negoziata dagli americani riportando linfa al moribondo Isi, oggi chiamato Isis e forte più che mai. E in Siria gli iraniani, che oggi con i russi controllano in “comproprietà” il regime a Damasco, sembrano voler adottare la stessa poco lungimirante strategia. Senza un riequilibrio e una riforma del potere a Damasco e a Baghdad resta un’enorme sacca sunnita dall’est della Siria all’Ovest dell’Iraq, esclusa da politica e risorse. Con l’annientamento dei ribelli siriani a molti non rimarrà altro che la bandiera del Califfo. In attesa che qualcuno al potere a Damasco, Baghdad, Teheran o Mosca capisca (o voglia capire) che il problema alla radice non sono il Corano e il jihad ma, come sempre, potere ed economia. 
  • •La Turchia, i curdi e il sistema regionale. Il Medio Oriente di oggi è molto diverso da quello di cinque anni fa. Ed è destinato a cambiare ancora, in modo non sempre indolore. Il crollo dei prezzi del petrolio e il ritorno dell’Iran sulla scena stanno portando a galla tutte le contraddizioni politiche e sociali delle monarchie del Golfo e nel medio termine grandi cambiamenti – e forse anche grandi destabilizzazioni – sono da aspettarsi sul quel fronte. Il disimpegno americano intanto continua. Quella che oggi appare – e in parte è – una politica ignava e contraddittoria rientra nel sommovimento dell’America post-Bush verso l’Asia e sempre più lontana da Europa e Medio Oriente. Il rifiuto categorico di appoggiare qualunque intervento militare proprio o alleato diretto contro Assad – dalla no fly-zone all’invasione parziale turca per garantire ‘safe-heaven’ ai ribelli – dimostra la volontà americana di adattarsi alla soluzione pro-Assad incoraggiata da russi e iraniani. Una scelta di cui probabilmente gli americani intuiscono i difetti strutturali, ma che preferiscono a un loro intervento diretto. Soprattutto a Washington non vedono negativamente la prospettiva che in futuro siano sempre più altri a ritrovarsi nelle mani tutte le spine dei conflitti mediorientali. 
  • Ma resta un nodo immediato, a cui difficilmente gli americani, così come tutti gli altri protagonisti, potranno sottrarsi: la crisi della Turchia e la questione curda. 

I curdi siriani, politicamente dominati dal PYD, alleato (se non ‘filiale’) siriano del PKK turco si apprestano secondo alcune indiscrezioni a chiudere la propria contiguità territoriale a nord della Siria, sul confine di una Turchia sempre più nervosa. Ankara per scongiurare una simile eventualità ha ingannato, mentito, massacrato e cospirato col Califfo distruggendo metodicamente tutta la notevole credibilità di cui la Turchia del miracolo economico e del Neo-Ottomanesimo sembrava godere fino al 2012. Ma non è bastato. 

Molti in questi anni hanno più o meno tifato per i curdi siriani. Partiti da veri “paria” – il regime prima del conflitto non riconosceva ai curdi siriani nemmeno la nazionalità – sono diventati per alcuni frangenti gli eroi della comunità internazionale, soprattutto durante l’assedio di Kobane. Mediaticamente molto abili nel celare le loro contraddizioni e talvolta anche i loro crimini, oggi il grande potere conquistato dai curdi pone uno dei grandi dilemmi per il futuro della Siria e della regione nel lungo termine. Perché è legittima la condanna da parte di molti della politica turca contro di loro, ma è anche vero che se si decide di considerare il comportamento di Ankara verso la scalata al potere dei curdi siriani fondamentalmente sbagliato, allora è necessario portare questo “fondamentalismo” alle sue estreme conseguenze. È probabile che i curdi siriani nel breve periodo si accontentino di una vasta autonomia all’interno dello stato siriano. Ma è difficile credere che non sarà considerata come il primo passo verso uno stato indipendente. E, soprattutto, che un Kurdistan siriano autonomo vicino al PKK non funga da futura base per una guerriglia mirata a portare anche parte del Kurdistan turco dentro quello stato indipendente. Non è fantapolitica, ma la logica dell’appoggio totale al PYD portata alle estreme conseguenze. 

Il punto è quindi questo: è la comunità internazionale pronta e disposta ad accettare la probabile eventualità di uno smembramento di uno – forse due – nazioni mediorientali nel lungo termine? E nel medio è disposta ad accettare un nuovo probabile conflitto civile aperto nella Turchia dell’Est, eventualità che peraltro si sta già in parte realizzando? 

Queste non sono due domande retoriche con una risposta implicita. Sono domande aperte a cui però bisognerebbe cominciare a rispondere seriamente, al di là dei facili entusiasmi e delle facili condanne. 

Eugenio Dacrema, Università di Trento
 
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