È ormai da diverse settimane che in Italia tira aria di “terza ondata”. Una dopo l’altra, diverse Regioni sono state costrette a stabilire zone rosse locali o zone “arancione rinforzato”, fino alla decisione di ieri che ha reso un po’ più scuro il colore dell’intera Regione Lombardia.
Si agisce sulla base dell’andamento regionale o locale e, per farlo, spesso si guarda a uno degli indicatori più precoci ma anche più robusti del peggioramento della situazione: l’andamento del numero di persone ricoverate in terapia intensiva. Come sappiamo, si tratta di un numero che segue di alcuni giorni l’aumento dei casi di positività al tampone a SARS-CoV-2; pur essendo un indicatore che arriva “in ritardo”, è però anche un indice che consente di descrivere con maggiore precisione la gravità dell’infezione, dal momento che, mentre il numero di nuovi casi dipende anche dalla capacità di testing regionale, quello dei ricoveri (e in particolare dei ricoveri in condizioni più gravi) è pressoché indipendente dalle capacità di testing.
Utilizzare il numero dei ricoverati in terapia intensiva per descrivere l’andamento dell’epidemia in Italia presenta però un grosso problema in un momento, come quello attuale, in cui le infezioni in Italia rimangono a un livello talmente elevato che la “coda” di una ondata appena trascorsa non consente di afferrare con precisione la reale portata di quella che la segue. Sappiamo infatti che i ricoveri in terapia intensiva possono durare settimane, e questo complica la nostra capacità di interpretare correttamente un eventuale aumento nelle persone ricoverate in un momento in cui lo “stock” dei ricoverati sia ancora molto elevato.
Per esempio, se la media settimanale dei ricoverati in terapia intensiva nel corso della seconda ondata ha toccato un picco di poco superiore alle 3.800 persone a fine novembre, ancora il 21 febbraio la media settimanale dei ricoverati si avvicinava alle 2.100 persone. Una situazione completamente diversa rispetto a quella dello scorso settembre, quando le persone ricoverate in terapia intensiva positive a SARS-CoV-2 in tutta Italia superava di poco le 100 unità.
Nel corso delle ultime due settimane, la media mobile settimanale del totale dei ricoverati è tornata a crescere, da 2.065 il 19 febbraio a 2.306 ieri. Un aumento del 12% che, per quanto importante, sottostima di molto la reale entità e gravità dell’ondata epidemica in Italia. Fortunatamente ci viene in soccorso un numero che la Protezione Civile diffonde dallo scorso 3 dicembre: quello dei nuovi ingressi giornalieri di persone ricoverate in terapia intensiva. Si tratta di un numero di flusso che, non risentendo dell’effetto “stock” delle persone ricoverate nei giorni passati, riesce a rappresentare meglio il reale andamento dell’epidemia in Italia. Il grafico in apertura illustra molto bene proprio questa discrepanza: mentre il numero di ricoverati in terapia intensiva è rimasto ben correlato a quello dei nuovi ingressi in terapia intensiva quando la situazione era in graduale, seppur lento, miglioramento, nelle ultime due settimane – dunque dal momento in cui la situazione ha cominciato a peggiorare – la “forbice” tra i due indici è diventata sempre più evidente.
Qualcuno potrebbe giustamente chiedersi: come sappiamo che il numero di nuovi ricoveri giornalieri in terapia intensiva è una fotografia migliore dell’andamento della pandemia in Italia rispetto allo stock dei ricoverati? Semplice: dalla forte correlazione che c’è tra questo indice e quello dei nuovi decessi giornalieri di persone positive a SARS-CoV-2. Da quando è disponibile, il numero dei nuovi ingressi in terapia intensiva precede di circa dieci giorni, e con una precisione molto elevata, quello dei nuovi decessi.
La figura qui sopra mostra proprio questo: è sufficiente traslare in avanti di dieci giorni la media mobile settimanale dei nuovi ingressi per poter prevedere l’andamento della curva dei decessi – ovviamente su scale diverse, con un rapporto di circa 2,6 decessi per ogni nuovo ricoverato in terapia intensiva dieci giorni prima.
Il grafico suggerisce purtroppo qualcosa di tragico: qualsiasi cosa facciamo, la curva dei decessi è comunque destinata a salire di molto nelle prossime due settimane, da circa 300 decessi al giorno a più di 500. Ciò accadrà qualsiasi decisione prenderemo in questo momento, semplicemente perché i decessi “seguono” in maniera sistematica l’andamento dei ricoveri gravi. Una seconda cosa che ci suggerisce l’andamento della curva dei nuovi ricoveri è che l’aumento dei decessi non ha ancora raggiunto il suo nuovo picco, e minaccia di salire ancora a meno che non siano adottate misure forti da subito.
E l’effetto vaccini? Al momento, aver somministrato almeno la prima dose di vaccino a una fetta delle persone più a rischio consentirà di ridurre la letalità di Covid-19 nel corso delle prossime due settimane di un valore che oscilla tra il 5% e il 10% del totale dei decessi attesi. Un numero molto piccolo, risultato sia della lentezza della campagna vaccinale in Italia e in Europa, sia della scelta italiana di vaccinare con estrema lentezza la popolazione ultra-ottantenne fino alla prima settimana di febbraio.
In conclusione, la terza ondata di infezioni in Italia non è in avvicinamento: è già qui. Ed è più grave di quello che sembra attualmente. Non si tratta di una predizione, ma di una descrizione di una realtà al momento inevitabile, almeno per quanto concerne il drastico deterioramento della situazione che stiamo già vedendo in questi giorni e che, purtroppo, osserveremo anche nel corso delle prossime due settimane. Come andrà dalla seconda metà di marzo in poi, invece, dipenderà soprattutto da noi. Dalle politiche che le autorità nazionali e locali decideranno di adottare, dall’andamento della campagna vaccinale, ma anche – e soprattutto – dai nostri comportamenti individuali.