72 milioni di dosi di vaccino distribuiti ai 27 paesi dell’Unione europea. Altri 77 milioni di dosi esportati, 29 fermi (fino a ieri) ad Anagni, nel frusinate. Questo è lo stato delle cose sul fronte vaccini oggi in Europa, al meglio delle nostre conoscenze, anche se probabilmente qualche altro milione di dosi sarà stoccato in altri stabilimenti produttivi dell’Unione europea.
Ciò che salta all’occhio, visibile anche nel grafico che apre l’articolo, è che dall’Unione europea sia uscita più di una dose su due tra quelle immesse sul mercato nel continente. A rivelarlo è stata la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in un tweet di ieri pomeriggio. Dei 77 milioni di dosi esportati, ben 21 sono finiti nel Regno Unito – più di una su quattro. Senza questi 21 milioni di dosi la campagna vaccinale britannica, che a oggi ha effettuato 31 milioni di inoculazioni, sarebbe a un punto molto differente.
Porre un limite alle esportazioni di vaccini non è certo una faccenda semplice. La produzione di un vaccino è complessa, composta di molti passaggi, e il prodotto finale che esce da uno stabilimento europeo talvolta usa componenti (in particolare, ingredienti), brevetti o tecnologie che vengono da “fuori”. Bloccare queste esportazioni potrebbe dunque provocare ritorsioni da parte di chi gli ingredienti e i macchinari li produce: tra gli altri, proprio il Regno Unito. Tuttavia, è inevitabile farsi qualche domanda. La prima, che sorge spontanea, è: davvero è un bene che queste dosi siano uscite dall’Unione europea? E, in particolare, è un bene che 21 milioni di dosi siano uscite con direzione Londra?
La risposta, da un punto di vista strettamente sanitario, è no. Al contrario, se il nostro obiettivo è quello di salvare il maggior numero di vite possibile, bloccare le esportazioni di vaccini verso il Regno Unito ha perfettamente senso. Londra ha infatti già completato la somministrazione della prima dose di vaccino a tutte le fasce d’età più a rischio dagli effetti dell’infezione di Covid-19, e sta al momento vaccinando i 50-54enni. Letalità di Covid-19 nella fascia d’età 50-59 anni? 0,5%. Significa che in quella coorte demografica rischia di morire una persona per ogni 200 che incontrano il nuovo coronavirus.
Si tratta di una situazione totalmente diversa da quella che attualmente sta vivendo l’Unione europea. In Italia, per esempio, al momento solo il 18% della popolazione over-60 ha ricevuto almeno la prima dose di vaccino. Tra gli ultra-novantenni ha ricevuto la prima dose solo poco più di una persona su due (il 53%). Letalità di Covid-19 per gli ultranovantenni? 13% circa. Significa che rischia di morire una persona ogni 8 che incontrano il nuovo coronavirus.
Cosa significa? Significa che, se utilizzata bene (ovvero sulla popolazione anziana e fragile), una singola dose di vaccino “vale” molto di più in Italia, e in generale nell’Unione europea, che se utilizzata su una persona cinquantenne nel Regno Unito. Possiamo anche calcolare di quanto. Una dose utilizzata per una persona ultranovantenne vale 26 volte di più che se fosse utilizzata per una persona cinquantenne. E, se confrontiamo il costo-opportunità di una dose di vaccino tra quarantenni e ultranovantenni, se utilizzata per i secondi quella stessa dose varrebbe 100 volte di più.
Ovviamente, sulle considerazioni sanitarie continua a prevalere la politica. Ma per i leader dei 27 Paesi europei riunitisi ieri e ancora oggi al Consiglio europeo virtuale, il nodo è anche sanitario. Perché 77 milioni di dosi in meno non sono solo fiale: sono vite.