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Africa

Debiti zavorra per la ripresa africana

Giovanni Carbone
|
Lucia Ragazzi
18 novembre 2021

Mentre lotta a cambiamento climatico e pandemia si sono solidamente aggiunte alle sfide strutturali dello sviluppo africano, portando con sé un’esigenza di ingenti risorse finanziarie, un andamento economico ancora poco brillante e il marcato aumento del debito tengono stretti gli spazi di manovra a disposizione dei governi subsahariani.

Il momento africano attuale va necessariamente letto con lo sfondo delle fasi economiche precedenti, in modo particolare la crisi del debito degli anni ’80 e ’90 – che venne di fatto superata con le iniziative di cancellazione adottate a livello internazionale dal 2005 – e la fase virtuosa emersa con l’espansione delle economie subsahariane tra la fine degli anni ’90 e il 2014 circa.

 

La crescita stenta…

Già a partire dal 2015-16 – quindi ben prima della pandemia del Covid-19 – la regione subsahariana nel suo complesso aveva preso un’andatura economica più lenta. Rispetto al picco dell’espansione – toccato con il 6,9% del 2010 – si era scesi vistosamente fino al modesto 1,5% del 2016, il livello più basso dal 1992[1]. Con una crescita economica inferiore a quella demografica (+2,7% della popolazione), quell’anno è stato così il primo nel nuovo millennio nel quale il reddito pro-capite ha subito una pur lieve contrazione. Il tasso di espansione del Pil si era poi assestato sul 3,1% medio del triennio 2017-2019, in terreno positivo, dunque, ma ben meno rispetto al 5,4% annuo registrato nel 2000-2014. Questo rallentamento era il riflesso non solo della fase di calo del ciclo delle commodities, ma anche della riduzione del flusso di investimenti diretti esteri (IDE), oltre che di shock meteorologico-climatici in alcune regioni e di debt distress in determinati Paesi. A ruota, le ripercussioni del peggioramento si sono fatte sentire su indicatori macroeconomici come inflazione, disavanzo e debito pubblico.

Se l’impatto economico del Covid-19 non era naturalmente evitabile, la pandemia è dunque arrivata quando le condizioni si erano già indebolite per economie, come quelle subsahariane, strutturalmente dipendenti e molto vulnerabili a shock esterni. Nel 2020 l’area ha così registrato la prima recessione (-1,7%) da oltre venticinque anni. Il reddito pro-capite a parità di potere d’acquisto è sceso da 3.982 dollari a 3.811, la prima volta che ha smesso di salire dall’inizio del nuovo secolo.

La crisi ha avuto tuttavia una portata diversa da Paese a Paese, con livelli stimati oltre il -8% del Pil per Paesi come Botswana, Namibia, Zimbabwe o Repubblica del Congo, e giù fino al -13%-15% per i piccoli Stati insulari dipendenti dal turismo, come Mauritius, Capo Verde e Seychelles. In generale, il calo è stato più marcato nell’Africa meridionale (il -7% medio circa, con il Sudafrica al -6,4%), seguita dalla fragile Africa centrale e dall’Africa occidentale, mentre l’Africa orientale, relativamente meno colpita, è stata l’unica regione che si è mantenuta in territorio positivo. In questo senso, gli effetti della pandemia sono stati mediati e dunque differenziati da fattori quali vulnerabilità strutturali legate a livello di sviluppo e di diversificazione dell’economia.

Rispetto ad alcune aspettative dell’inizio della pandemia, la contrazione dei tassi di crescita è stata complessivamente più contenuta. Nel contesto di una forte ripresa dell’economia globale (+5,9% nel 2021) e, in particolare, di una decisa trazione da parte dei prezzi delle commodities (non solo per energia e metalli, ma anche per alcune importanti food commodities), stime e previsioni riviste del FMI, tra l’ottobre 2020 e l’ottobre di quest’anno, hanno infatti ridimensionato la recessione subsahariana del 2020 (da -3,0% a -1,7%) e alzato la previsione per il 2021 (dal +3,1% al +3,7%). L’espansione proseguirà nel biennio successivo (+3,8% atteso nel 2022 e +4,1% nel 2023). Questo andamento, tuttavia, delude non solo rispetto a quello atteso per l’economia globale (+5,9% per il 2021 e +4,9% per il 2022), ma anche se raffrontato al passo delle economie emergenti e in via di sviluppo nel loro complesso (+6,4% nel 2021, +5,1% nel 2022 e +4,6% nel 2023). Di fatto saranno anni nei quali, anziché accelerare il lungo percorso per cercare di agganciare un giorno le economie avanzate, l’Africa subsahariana rischia di vedere aumentare il gap con il resto del mondo. I risvolti sulle condizioni di vita nella regione si stanno dispiegando pienamente nelle componenti più fragili delle popolazioni africane – in particolare, con l’aumento della povertà estrema e dell’insicurezza alimentare e il deterioramento di salute e istruzione – cancellando anni di progressi che, a loro volta, richiederanno tempi lunghi per essere recuperati.

 

… mentre il debito cresce

Non più tenuto a freno da una crescita economica più sostanziosa, il rapporto tra debito e Pil in Africa nel suo complesso era già cresciuto in maniera netta, seppur graduale, dal 39,5% del 2011 al 61,3% del 2019, stabilizzandosi però nel triennio 2017-19. Stime recenti indicano che, per l’area subsahariana (ma la situazione non è diversa per il continente nel suo complesso), la pandemia ha condotto a un salto in avanti fin oltre il 70% del Pil già dal 2020[2]. A sommarsi agli elevati deficit primari generati dalle costose misure di mitigazione dell’impatto della pandemia, ci sono stati, come cause altrettanto incisive, il deprezzamento delle valute nazionali e l’aumento della spesa per interessi. Ma anche corruzione e malgoverno, grandi investimenti in infrastrutture, e spese per la difesa hanno dato un contributo importante.

Con la crisi del Covid-19, l’indebitamento è naturalmente aumentato in modo marcato pressoché in ogni altra regione del mondo. Tra i Paesi dell’Unione Europea, ad esempio, il debito medio sul Pil è passato dal 77,2% del 2019 al 90,1% di fine 2020. Ma livello di sviluppo, struttura e fragilità di gran parte delle economie africane sollevano particolari timori circa la sostenibilità del debito. I Paesi più indebitati includono Sudan, Mozambico, Angola, Repubblica del Congo e Zambia. Quest’ultimo è stato il primo Paese a dichiarare il default, l’incapacità di ripagare il debito in scadenza, durante la pandemia. Ma anche i supposti virtuosi come Ghana e Rwanda registrano incrementi tutt’altro che trascurabili e presentano oggi maggiori difficoltà.

Nel corso degli ultimi due decenni, anche la composizione del debito africano è andata modificandosi, con un peso accresciuto di creditori commerciali (ovvero detentori di obbligazioni sovrane e banche commerciali) e Paesi non appartenenti al Club di Parigi (un raggruppamento informale che raccoglie Paesi ricchi creditori delle economie emergenti o in via di sviluppo quando si impone la necessità di rinegoziazioni dei debiti), su tutti la Cina.

Nel ventennio passato (2000-2019), ben 18 paesi hanno debuttato sul mercato internazionale dei capitali emettendo obbligazioni statali (in precedenza lo avevano fatto solo altri tre), una modalità di finanziamento molto ricercata anche perché libera da condizionalità. Ma l’accesso a tali mercati si è ristretto con la percezione di rischi in crescita. Secondo l’African Development Bank, da gennaio 2020 si è avuta una fuga di capitali dalla regione pari a 90 miliardi di dollari.

 

La Cina, principale creditore

Pechino è il primo dei creditori bilaterali (detiene il 13% del debito africano ed è seguita dagli Stati Uniti con il 4%, anche se l’assenza di trasparenza rende i dati cinesi poco certi). Il 60% del debito alla Cina proviene da cinque Paesi: Angola, Camerun, Etiopia, Kenya e Sudafrica (l’illustre assente qui è la Nigeria, prima economia del continente). Ma a contare sono anche il peso relativo alla dimensione dell’economia e la collateralizzazione del debito per mezzo di risorse o infrastrutture strategiche da parte di determinati Paesi, che aumentano i rischi del loro indebitamento e le implicazioni e la vulnerabilità rispetto ad eventuali default.

In questo contesto, posizioni di debito sempre meno sostenibili mettono a rischio la capacità dei Paesi africani non solo di andare incontro ai loro obblighi finanziari, ma anche di consolidare la ripresa e al contempo di portare avanti politiche in grado di realizzare gli obiettivi di sviluppo prefissati. Fin dall’inizio della crisi legata al Covid-19 si è resa evidente la necessità di sostenere i Paesi a rischio di default tramite iniziative ad hoc, con uno sforzo aggiuntivo di coordinamento da parte della comunità internazionale.

Il primo grande strumento messo a punto è stata l’iniziativa per la sospensione del servizio sul debito (Debt Service Suspension Initiative, DSSI), lanciata dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) di concerto con il G20. La DSSI prevede la sospensione temporanea dei pagamenti sul debito per i Paesi con maggiore vulnerabilità, concedendo a queste economie un maggiore spazio di manovra per reagire alla crisi economica. Questa moratoria temporanea coinvolge sia i membri del Club di Parigi che nuovi creditori, tra cui la Cina. Secondo la Banca Mondiale, dall’aprile 2020 la DSSI ha supportato con oltre 5 miliardi di dollari più di 40 paesi, su 73 eleggibili, che ne hanno fatto ricorso.  L’iniziativa è stata prorogata più volte, e la sua scadenza è prevista a dicembre 2021, senza ulteriori rinnovi all’orizzonte e con conseguente incertezza circa le tempistiche di una effettiva ripresa dei pagamenti. Per quanto rilevante, inoltre, la portata di questa iniziativa è stata relativamente limitata in Africa subsahariana, dove nei sei mesi da gennaio a giugno 2021 il risparmio è stato equivalente a una media dello 0,4% del Pil (con le eccezioni di Angola, Mozambico e Repubblica del Congo)[3]. Questo riflette in parte l’esitazione dei Paesi africani nel partecipare all’iniziativa, per il timore di un abbassamento del rating. Ad aprile 2021, 30 dei 37 Paesi eleggibili della regione avevano comunque fatto ricorso a questa iniziativa.

 

Le iniziative del G20 per alleviare il debito

Nel novembre 2020 il gruppo del G20 e il Club di Parigi hanno adottato poi il Common Framework per il trattamento del debito oltre la DSSI (Common Framework for Debt Treatment beyond the DSSI), con un impegno poi riconfermato dai leader del G20 italiano nel novembre 2021. L’iniziativa mira a fornire una soluzione strutturale ai Paesi indebitati, fornendo un quadro comune di riferimento valutato caso per caso da un comitato dei creditori, alla luce delle richieste del Paese e delle analisi fornite dal FMI e dalla Banca Mondiale. La ratio di questa iniziativa è quella di garantire un maggiore coordinamento tra i creditori e al tempo stesso di assicurare la futura sostenibilità del debito; al momento, però, tra i paesi della regione solo Ciad, Etiopia e Zambia hanno aderito all’iniziativa. Questa quota di partecipazione rispecchia la riluttanza dei Paesi debitori a impegnarsi in un processo di ristrutturazione a lungo termine.

Il FMI aveva già attivato a inizio pandemia lo strumento del Catastrophe Containment and Relief Trust (CCRT) a favore dei suoi membri più esposti finanziariamente. A settembre 2021, questo strumento aveva fornito un supporto pari a un totale di 596 milioni di dollari a 22 paesi subsahariani. Ma lo sforzo internazionale in supporto alla sostenibilità del debito ha portato anche, e soprattutto, a ricorrere ai Diritti Speciali di Prelievo (DSP) (Special Drawing Rights, SDRs), beni di riserva internazionali messi a disposizione dal Fondo Monetario Internazionale per integrare le riserve dei Paesi membri e rafforzarne la capacità di risposta alle difficoltà finanziarie. Nell'agosto di quest’anno, il FMI ha varato un’allocazione aggiuntiva di circa 650 miliardi di dollari di DSP - la più grande fatta da quando sono stati istituiti nel 1969. Di questi, i Paesi dell’Africa subsahariana hanno ricevuto 23 miliardi di dollari, pari al 3,6% del totale. Nigeria e Sudafrica da soli – che assieme rappresentano circa il 43% dell’intera economia della regione – hanno ricevuto un terzo dell’allocazione totale dei DSP. Le quote sono comunque rilevanti anche per altri Paesi: per Liberia o Zambia, ad esempio, l’allocazione equivale al 5% circa del volume della loro economia. I DSP garantiscono un’importante forma di liquidità aggiuntiva per aiutare i Paesi beneficiari a risollevarsi dagli effetti economici della pandemia e ad avviare riforme macroeconomiche strutturali, ma occorre che continuino a essere affiancati da altri strumenti. Al di là del sostegno temporaneo in un momento di necessità immediate ed emergenza acuta, la crescita dell’indebitamento africano e la questione della sua sostenibilità impongono riflessioni, interventi e trasformazioni di carattere più strutturale e di lungo termine.

 

 

NOTE

[1] Dati sulla crescita fanno riferimento all’Africa subsahariana (escludono dunque l’Africa del Nord) e sono tratti da International Monetary Fund, World Economic Outlook database, versione ottobre 2021 (raffrontati alla versione di ottobre 2020 o aprile 2021 dove esplicitato).

[2] La Banca Mondiale stima il debito pubblico medio per l’Africa subsahariana al 71% del Pil nel 2021 (World Bank, Africa’s Pulse, October 2021, p.28).

[3] Fuje, Habtamu, Franck Ouattara, and Andrew Tiffin, 2021, IMF Special Series COVID-19 Note (August 24), International Monetary Fund

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Giovanni Carbone
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Lucia Ragazzi
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