Diceva bene Ian Bremmer, presidente di Eurasia Group, qualche giorno fa, a proposito della scelta di Obama di smettere di fumare, che ha trovato ampio spazio sui rotocalchi americani: «Looks like Obama picked the wrong presidency to give up smoking». Non è decisamente un buon momento per smettere di fumare, e per quante responsabilità e preoccupazioni accumuli in sé per definizione la carica di presidente degli Stati Uniti d'America, occorre riconoscere che in questo particolare momento storico l'onere sembra superare di gran lunga l'onore.
La voglia di andare a est, e le oggettive difficoltà nel farlo, il desiderio di scuotersi una volta per tutte dagli anfibi la polvere delle sabbie mobili mediorientali, la necessità di trovare un compromesso con l'Iran su un programma nucleare ormai percepito come inevitabile, cercando dunque perlomeno di limitare i danni, e ancora il buco nero siriano, che sta diventando la nuova centrale del terrore, così come il riaprirsi dei fronti di al-Qaeda in Africa. E questo solo per quanto riguarda la politica estera. Perché dal lato interno ciò che tiene occupate le giornate del presidente sembra essere ancora più difficile. L'America è in ostaggio, e, nonostante siano tutti concordi nell'attribuire la colpa del potenziale apocalisse finanziario alle fazioni più radicali del Gop, la presidenza Obama rischia di essere ricordata come la presidenza in cui l'America è fallita, non ha tenuto fede ai propri impegni, ha perso la propria credibilità. «In every administration, the first term is about the election and the second term is about legacy», ha affermato l'ex portavoce del Dipartimento di Stato, P.J. Crowley.
Se sul fronte della politica estera Obama è apparso negli ultimi mesi alquanto riluttante, indeciso sulla strategia da seguire al punto da far dubitare dell'esistenza stessa di una strategia, sul fronte interno sembra avere assunto invece una postura più ferma, con il rifiuto netto di sottostare al ricatto repubblicano che tiene in ostaggio il Congresso. Tuttavia, questo non è servito a frenare il drastico calo di popolarità che il presidente sta facendo registrare tra gli americani, complice anche lo scandalo Nsa. Se nel 2009, un mese dopo il suo esordio alla Casa Bianca, i sondaggi rivelavano che secondo l'85% degli Americani Obama possedeva grandi qualità di leadership, oggi quella percentuale è drasticamente scesa al 42%.
Quale linea ha adottato Obama per risolvere la crisi del budget? Il motto è stato, ed è tuttora, «non negozio con chi chiede un riscatto». Il presidente ha inoltre più volte ripetuto che, in qualunque modo si risolva questa crisi, due cose gli stanno a cuore: mai più negoziati sotto minaccia, e mai più indugiare di crisi in crisi, trovando solo accordi temporanei, senza risolvere davvero la questione. Non vuole infatti porre le basi per un precedente, rendendo ricattabile qualunque presidente futuro. Del resto, verrebbe da dire, c'è poco da fare, se non mantenere la posizione.
Il turno di gioco sembra essere nelle mani di quei 30 repubblicani che sono tra i firmatari della lettera predisposta da Mark Meadows, repubblicano del North Carolina, lo scorso agosto. In quella lettera Meadows avanzava per la prima volta la proposta di legare l'approvazione del budget federale 2014 all'abrogazione di Obamacare. Strategia insensata secondo molti del suo stesso partito, e che tuttavia ha spinto a una folle corsa verso destra. Complice, in questo caso, la modalità con la quale vengono disegnati i collegi elettorali americani. In molti stati, infatti, è concesso ai governanti locali “disegnare” a proprio piacere i distretti, che spesso divengono dunque delle vere e proprie roccaforti del loro partito di provenienza. È la pratica del gerrymandering, utilizzata soprattutto dai repubblicani, che assicura che, da quel distretto, alle elezioni generali emerga vincitore l'appartenente a una certa parte politica; il problema dunque è nella competizione tra compagni di partito, le primarie, che nel caso dei repubblicani viene spesso segnata da una corsa sempre più verso destra per dimostrare di essere “più repubblicano” del proprio concorrente. È questo che, nel faccia a faccia attuale, sembra bloccare l'ala estrema del Gop sulle proprie posizioni. Ed è qui che s’inserisce la questione della mancanza di una leadership credibile anche tra le file dei repubblicani. John Boehner, speaker della Camera, in primis. Ma anche i cosiddetti astri nascenti del Gop: Marco Rubio, Chris Christie, Bobby Jindal, Rand Paul, guardano non alle elezioni di mid-term ma alle presidenziali del 2016, e sanno bene che le presidenziali si vincono andando a caccia dell' “elettore mediano”, convergendo verso il centro e non radicalizzandosi a destra, eppure non parlano, per non essere tacciati di “intelligence con il nemico”. Ognuno dunque sembra fare i propri calcoli, mentre l'America rischia di andare a fondo. Cosa ne è stato dei leader con una visione del futuro, con a cuore l'interesse del proprio paese?
Se un leader si riconosce nei momenti di crisi, questo sembra essere dunque il momento adatto per consegnare ai biografi gesta degne di essere ricordate negli anni a venire. Da un po' di tempo a livello internazionale si soffre la mancanza di leader degni di questo nome, proprio in un momento storico nel quale servirebbero personalità in grado di trainare i rispettivi paesi fuori dal difficile guado della crisi. Da grandi poteri derivano grandi responsabilità, e «la responsabilità è il prezzo della grandezza», diceva Winston Churchill, che, come la storia, ha insegnato ma non ha avuto alunni.