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Focus Mediterraneo Allargato n.8

Dentro la guerra bloccata: lo Yemen dei "feudi" politico-militari

Eleonora Ardemagni
28 settembre 2018

Il conflitto in Yemen è bloccato: lo sono le tante linee del fronte (come Taiz e al-Bayda), nonché la stessa proiezione militare della coalizione araba guidata dall’Arabia Saudita, che interviene dal marzo 2015 contro gli huthi (gli insorti sciiti del nord appoggiati dall’Iran) e a sostegno delle istituzioni riconosciute dalla comunità internazionale. L’operazione Golden Victory, lanciata il 13 giugno scorso dalla coalizione per recuperare la città di Hodeida, porto strategico sul mar Rosso controllato dagli huthi, si è tradotta finora in un intervento aereo “a intermittenza”, che non ha pressoché modificato gli equilibri urbani, dato anche il continuo rinvio dell’inizio delle operazioni di terra nella città. Di conseguenza, lo stallo militare disincentiva il negoziato diplomatico: le parti cercano di ottenere vittorie strategiche sul campo, prima di trattare reciproche concessioni politiche. Le consultazioni (pre-negoziati) organizzate dalle Nazioni Unite il 6 settembre scorso a Ginevra non hanno neppure avuto luogo: la delegazione degli huthi non ha mai lasciato la capitale occupata Sana’a (dichiarando di non aver ricevuto le garanzie richieste) e quella governativa è ripartita dalla Svizzera deplorando l’atteggiamento degli insorti. La stasi militare riflette la fatica e il logorio di un conflitto entrato ormai nel suo quarto anno: nessuna fazione riesce a prevalere militarmente sull’altra1. Il fallimento delle consultazioni ha però riacceso la battaglia per Hodeida, che peggiora una situazione umanitaria già gravissima: 22 milioni di yemeniti necessitano di assistenza umanitaria, 17 milioni vivono in una condizione di insicurezza alimentare (malnutrizione cronica e malnutrizione acuta), mentre i casi di colera hanno superato il milione. Tre entità governative coesistono entro i confini dello Yemen: le istituzioni riconosciute, presiedute dal presidente ad interim Abd Rabu Mansur Hadi, rilocato ad Aden dopo il golpe degli huthi nel gennaio 2015 (ma di fatto basato a Riyadh), il “governo parallelo” degli insorti huthi a Sana’a, nonché il Consiglio di Transizione del sud (Stc), l’organo istituzionale dei secessionisti meridionali, creato ad Aden nel maggio 2017 e appoggiato ufficiosamente anche dagli Eau. L’inarrestabile disgregazione della sovranità statuale lascia spazio a “feudi politico-militari” su base tribale-territoriale, da cui originano nuove reti di potere informale, fedeltà militare e clientela economica. Più il conflitto prosegue, più la risoluzione n° 2216 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (aprile 2015), base negoziale dei tre round di colloqui già svoltisi senza successo (l’ultimo in Kuwait nel 2016), diventa politicamente vecchia, dunque incapace di offrire chiavi diplomatiche efficaci per la risoluzione del conflitto. Basti pensare alla successiva costituzione del Stc, attore oggi imprescindibile dato il seguito territoriale nel Sud e la forza delle milizie pro-indipendentiste e filo-emiratine, eppure escluso dalle recenti consultazioni di Ginevra (cui era stato invitato in qualità di osservatore); o al cambio di alleanza del blocco di potere legato all’ex presidente Ali Abdullah Saleh, prima sodale degli huthi e ora loro avversario, un passaggio culminato nell’uccisione dello stesso Saleh da parte di miliziani huthi il 4 dicembre 2017.

Hodeida, Taiz, Sa’da. I fronti aperti

Hodeida, 600 mila abitanti, è divenuta il fulcro dello scontro fra gli huthi e le variegate forze a loro opposte. Il controllo di questo porto è strategico per tre ragioni: l’80% delle importazioni commerciali e degli aiuti umanitari entra da qui, tasse portuali, check-points e contrabbando sono le principali fonti di finanziamento per il movimento huthi che, grazie a Hodeida, mantiene aperto l’unico collegamento fra la costa occidentale, Sana’a e la provincia d’origine degli insorti, la settentrionale Sa’da2. Inoltre, secondo l’Arabia Saudita, le armi (incluse le componenti dei missili da assemblare) inviate dall’Iran agli huthi entrerebbero dalle coste del Mar Rosso: un’ipotesi “improbabile” per il Panel degli Esperti delle Nazioni Unite, data la presenza del Meccanismo di Ispezione e di Verifica dell’Onu (Unvim)3. I numeri delle forze dispiegate per la campagna di Hodeida sono vistosamente impari. I miliziani huthi sarebbero tra i 3 e i 5 mila, contro 1500 uomini delle Forze Speciali della Guardia presidenziale degli Emirati Arabi Uniti, alla guida di 20/25 mila yemeniti, tra soldati regolari e uomini in armi. Infatti, il fronte anti-huthi di Hodeida si compone di segmenti delle ex forze di sicurezza regolari, più milizie locali e meridionali. Le Forze di salvezza nazionale, comandate da Tareq Saleh, nipote del defunto presidente e già capo della Guardia presidenziale, comprendono gli esperti soldati della disciolta Guardia repubblicana ancora fedeli ai Saleh, le tribù locali della Tihama Resistance (dal nome della piana occidentale di cui Hodeida è capoluogo) e la Brigata al-Amalaqah (ovvero “i giganti”, secessionisti meridionali di osservanza salafita). A dispetto dei rapporti di forza sbilanciati, la battaglia per Hodeida non è finora entrata nel vivo, anche grazie al tenace attivismo diplomatico dell’inviato dell’Onu: dopo la riconquista dell’aeroporto lo scorso giugno, il fronte anti-huthi, con l’appoggio aereo della coalizione saudita e la guida terrestre degli Eau, ha accettato una pausa per consentire alle Nazioni Unite di mediare. Al di fuori della città, gli scontri sono invece proseguiti, specie tra al-Durayhimi e Zabid: i bombardamenti su Hodeida sono ripresi il 6 settembre scorso, nelle ore in cui le consultazioni Onu fallivano ancor prima di cominciare; il 12 settembre, il fronte anti-huthi ha ripreso la principale strada che collega Hodeida a Sana’a. Taiz, città prevalentemente sunnita nonché faro dell’Islam politico yemenita, è ancora occupata dagli insorti sciiti e rimane in bilico tra i fronti. In città, cresce il ruolo delle milizie anti-huthi, legate o al presidente riconosciuto e al partito Islah (che include i Fratelli Musulmani e parte dei salafiti) o agli Eau. Proprio Hadi ha consentito qui la formazione del Quinto battaglione presidenziale (5th Presidential Protection Battalion), gruppo armato informale comandato dal salafita Adnan Rouzek, originario del governatorato di Shabwa. Secondo alcuni report, Rouzek arruolerebbe anche qaidisti: al-Qaida nella penisola arabica (Aqap) mantiene una folta presenza militante a Taiz4. La Brigata Abu Abbas, dal nome di battaglia del suo comandante, Adil Abduh Fari Uthman al-Dhubhani, “mantiene territori all’interno della città ed esercita diritti e responsabilità esclusivi del governo legittimo5”: dall’ottobre 2017, il suo leader è stato designato come terrorista da Stati Uniti e Arabia Saudita per legami con Aqap e IS. La Brigata continuerebbe a ricevere appoggio dagli emiratini per contrastare sia gli huthi sia i Fratelli Musulmani locali. Anche il governatorato centrale di al-Bayda rimane un terreno di scontro: confinando con otto regioni yemenite, è uno snodo conteso fra huthi, filo-governativi, qaidisti e persino cellule del sedicente Stato islamico, presenti nell’area di Yakla. Le forze che sostengono il governo riconosciuto stanno poi avanzando nella provincia settentrionale di Sa’da, la roccaforte del movimento huthi, al confine con l’Arabia Saudita. In questo territorio montagnoso e fortemente tribale, le unità pro-Hadi stanno combattendo a Marran (distretto di Haydan), luogo altamente simbolico: Husayn al-Huthi, fondatore del movimento, fu qui ucciso dalle forze di sicurezza di Saleh nel 2004 (prima guerra di Sa’da) e l’attuale leader del movimento nonché fratellastro di Husayn, Abdel Malek al-Huthi, vi risiede ancora.

Oltre lo stato che non c’è più: lo Yemen dei “feudi” politico-militari

Definire il conflitto in Yemen come uno scontro binario tra filo-governativi e ribelli è semplicistico e fuorviante. I “governi” sono tre, gli attori coinvolti sono eterogenei e, dato il tessuto tribale del paese, cambiano spesso alleanze. In tale quadro, concetti come “sicurezza” e “forze militari” trovano declinazioni sempre più peculiari, autonome e tra loro confliggenti: in Yemen, è ormai difficile distinguere tra forze militari regolari, semi-regolari (ovvero milizie poi istituzionalizzate) e irregolari. Inoltre, lontano dalle ipotesi di decentralizzazione dall’alto dei poteri in un’ottica federale, la fine dello stato yemenita e la triplicazione degli organi che si definiscono “di governo” hanno accelerato un processo dal basso di localizzazione della sicurezza su base regionale e/o tribale, che si traduce nella moltiplicazione di milizie, formazioni para-militari istituzionalizzate e gruppi armati informali, anche di matrice filo-governativa. Mentre la “grande guerra” tra gli huthi e i sauditi prosegue, così come i “piccoli conflitti” a livello regionale e locale, lo Yemen – privo di istituzioni centrali legittimate – si sta riconfigurando come un insieme di feudi geograficamente contigui e spesso rivali basati su relazioni di fedeltà-protezione. In questi micro-poteri locali autonomi e gerarchizzati, la figura piramidale, spesso un comandante militare che è allo stesso tempo un influente capo (shaykh) tribale, si pone come il garante della sussistenza sociale ed economica della comunità, tessendo una rete di relazioni clientelari che giunge fino a patrons esterni. È per esempio il caso di Abu al-Yamama al-Yaefi, comandante delle Security Belt Forces (Sbf) di Aden: shaykh dell’influente confederazione tribale meridionale degli Yaefi, egli guida una milizia (tecnicamente affiliata al ministero dell’Interno del governo riconosciuto) che controlla vasti quartieri di Aden, ma è presente anche in Abyan e Lahj, sostiene la causa secessionista ed è organizzata, addestrata e finanziata dagli emiratini6. Una dinamica simile si individua fra il generale Ali Mohsin al-Ahmar, vice presidente riconosciuto e vice comandante delle forze armate, basato nella regione di Mareb, e l’Arabia Saudita; oppure tra il presidente Hadi, sostenuto da Riyadh, e formazioni para-militari di Taiz e Aden. Da anni, i territori nord occidentali controllati dagli huthi sono autonomi e, di fatto, autarchici, con legami materiali sempre più stretti e verificati con l’Iran. Pertanto, le relazioni economiche e di sicurezza si localizzano: da una prospettiva diplomatica, definire e applicare un quadro nazionale di trattativa è oggi inverosimile. I consigli locali delle regioni ricche di idrocarburi, come Mareb, Hadhramaut e Shabwa, hanno iniziato a trattenere nelle casse regionali le imposte riscosse: l’obiettivo è ottenere dal governo riconosciuto la possibilità di reinvestire fino al 20% delle tasse sul territorio (per esempio, Shabwa ha effettuato il primo export di petrolio dal 2015, direzione Cina), anche se i contorni del rapporto governo-regioni rimangono al momento indefiniti.

Dal 30 agosto, Aden è attraversata da proteste e scioperi contro il governo riconosciuto7, accusato di corruzione e cattiva gestione dell’economia: dal 2015, il riyal ha perso due terzi del suo valore rispetto al dollaro e l’inflazione sale. Hadi ha annunciato l’aumento del 30% di stipendi e pensioni, ma gli scontri sono proseguiti e hanno toccato altre regioni, come l’Hadhramaut, provocando numerosi feriti: le Sbf minacciano di cacciare i soldati regolari, prevalentemente del nord, dal sud dello Yemen se il Stc non verrà incluso nei negoziati dell’Onu. Il leader del Stc, l’ex governatore di Aden Aydarous al-Zubaidi, ha invitato alla intifada (sollevazione) popolare. Il rischio è che i tanti feudi dello Yemen aprano nuove faglie di scontro.

Lo Yemen nella partita mediorientale: implicazioni geopolitiche e marittime

Da una prospettiva regionale e internazionale, l’incontro di una delegazione degli huthi con il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, avvenuto a Beirut il 19 agosto scorso, sta alimentando ricostruzioni e accuse circa la presenza, al fianco degli huthi, di esperti militari del partito-milizia sciita libanese. Mohammed Abdelsalam, portavoce degli huthi, faceva parte della delegazione: lo scorso 10 febbraio, Abdelsalam aveva già incontrato il ministro degli affari esteri iraniano Mohammed Javad Zarif a Teheran. L’ambasciatore saudita negli Stati Uniti, Khalid bin Salman al-Saud (fratello del principe ereditario Mohammed bin Salman) ha puntato il dito contro il ruolo di Hezbollah in Yemen: Riyadh sostiene che comandanti del partito di Nasrallah addestrerebbero gli huthi in suolo yemenita. Secondo la coalizione saudita, dieci esperti militari di Hezbollah sarebbero morti in Yemen nell’estate del 2018, coinvolti in due incidenti, uno dei quali nel Mareb. Le implicazioni del conflitto sulla sicurezza marittima nel Bab el-Mandeb, snodo commerciale e petrolifero che collega il Golfo di Aden al Mar Rosso, sono ormai evidenti: il 25 luglio scorso, l’Arabia Saudita ha interrotto per dieci giorni il passaggio delle sue petroliere nello stretto, dopo il danneggiamento di una di esse in acque internazionali da parte di un missile o razzo lanciato dagli huthi. Il rischio sicurezza nel Bab el-Mandeb si lega alle tensioni nello stretto di Hormuz, sullo sfondo della disputa fra Stati Uniti, Iran e Arabia Saudita. L’8% delle forniture mondiali di petrolio, ovvero quasi 5 milioni di barili di greggio al giorno, transitano per il Bab el-Mandeb: Egitto e Israele hanno espresso preoccupazione in merito ai ripetuti attacchi nello stretto. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che il governo israeliano è pronto a partecipare a un’eventuale missione internazionale che ripristini la libertà di navigazione nell’area8. L’ennesima strage di civili da parte della coalizione saudita il 9 agosto scorso (stavolta un autobus che trasportava 43 persone, tra cui 29 bambini, nell’area di Sa’da), ha provocato ulteriore imbarazzo tra gli alleati internazionali di Riyadh. Il Segretario alla Difesa Usa, James Mattis, ha dichiarato che l’appoggio di Washington all’intervento saudita in Yemen “non è incondizionato” e l’Arabia Saudita ha riconosciuto, per la prima volta, l’errore del bombardamento, pur considerando l’obiettivo legittimo, dopo un’indagine interna del Joint Incident Assessment Team. In Spagna, il nuovo governo a guida socialista ha provato a cancellare il contratto di fornitura di 400 bombe laser al regno saudita, firmato nel 2015, salvo poi fare marcia indietro per non rimettere in discussione tutti gli accordi con Riyadh, compreso quello per la vendita di cinque corvette di Navantia9. In Germania, un progetto di legge presentato da Die Linke potrebbe proibire, se approvato, l’export di armi tedesche a sauditi ed emiratini10. Sulla questione dei missili, gli attacchi degli insorti sciiti contro il territorio dell’Arabia Saudita hanno raggiunto una frequenza settimanale nel 2018; la loro gittata è diventata più lunga e Riyadh è già stata colpita sei volte dal dicembre 2017. Il 5 settembre scorso, alla vigilia delle consultazioni previste a Ginevra, un missile è stato intercettato a sud della città di Najran. Secondo le autorità saudite, i detriti hanno ferito 37 civili (in parte ricoverati), tra cui due bambini: è l’episodio numericamente più grave, nonostante 185 missili siano già caduti sul regno, provocando anche vittime civili fra sauditi e stranieri. Pertanto, la possibilità che Riyadh intraprenda un’azione di ritorsione, anche nei confronti dell’Iran sponsor degli huthi, cresce proporzionalmente ai danni causati dagli attacchi missilistici sul regno, e diventa uno scenario sempre più verosimile, dalle scivolose implicazioni regionali11.

 

 1 Per una genesi e cronologia del conflitto, si rimanda a E. Ardemagni, “Yemen in guerra: tre governi e molti conflitti”, in Focus Mediterraneo Allargato, aprile 2018, n°7, a cura di V. Talbot, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), pp.20-29 https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/focus-mediterraneo-allargato-...

2 Sulla rilevanza della battaglia per Hodeida, nonché sul ruolo mancato dell’Unione Europea nella crisi yemenita, si veda J. Hiltermann, “It’s Time for the European Union to Push Yemen Towards Peace”, IRIN, 9 giugno 2018 http://www.irinnews.org/opinion/2018/06/09/it-s-time-european-union-push...

3 United Nations Security Council, “Panel of Experts on Yemen”, 26 gennaio 2018, S/2018/68, p.100

4 M. Michael, T. Wilson e L. Keath, “AP Investigation: US allies, al-Qaeda battle rebels in Yemen”, Associated Press, 7 agosto 2018 https://www.apnews.com/f38788a561d74ca78c77cb43612d50da

5 United Nations Security Council, Ibid

6 Sugli interessi degli EAU in Yemen, E. Ardemagni, “The UAE’s Security-Economic Nexus in Yemen”, Carnegie Sada, 19 July 2018 http://carnegieendowment.org/sada/76876

7 M. Mukhashaf, “Protests over Yemen's weakening currency paralyze Aden”, Reuters, 2 settembre 2018 https://www.reuters.com/article/us-yemen-security/protests-over-yemens-w...

8 Reuters, “Israel warns Iran of military response if it closed key Red Sea strait”, 1 agosto 2018 https://www.reuters.com/article/us-israel-redsea/israel-warns-iran-of-mi...

9 L. Abellán, J. A. Cañas e C. E. Cué, “El Gobierno reabre la puerta a vender bombas a Arabia Saudí para mantener un contrato millonario de Navantia”, El País, 8 settembre 2018 https://elpais.com/politica/2018/09/07/actualidad/1536321327_059352.html; M. González, “Spain saves Saudi contracts after averting diplomatic row over missile sale”, El País (in English), 10 settembre 2018 https://elpais.com/elpais/2018/09/10/inenglish/1536568351_837677.html

10 The Independent, “Germany set to ban arms sales to Saudi Arabia and Turkey amid fear of human rights abuses”, 28 aprile 2018 https://www.independent.co.uk/news/world/europe/germany-ban-arms-sales-s...

11 Per un’analisi di scenario, Bilal Y. Saab, “Beyond the proxy powder keg: the specter of war between Saudi Arabia and Iran”, Middle East Institute, May 14, 2018 http://www.mei.edu/content/beyond-powder-keg-specter-war-between-saudi-a...

 

 

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